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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

I cittadini immigrati contribuiscono in modo determinante a sostenere

il nostro sistema economico,ma non ne percepiscono tutti i benefici e si avverte l’esigenza

di politiche più efficaci dal lato dell’integrazione

 

 

Introduzione

Negli ultimi anni, l’Italia è stata interessata da una forte crescita dell’immigrazione, la cui motivazione principale è la ricerca dipdf lavoro. Questo fenomeno ha assunto dimensioni sempre maggiori, sebbene il nostro paese non ha una lunga tradizione come “attrattore” dei flussi internazionali di manodopera. Secondo i dati definitivi pubblicati dall’Istat [2008b], il 2007 rappresenta un anno record dal punto di vista degli ingressi di cittadini stranieri, con un aumento di poco inferiore alle 500.000 persone, il 16,8% in più rispetto all’anno precedente. Si tratta di un incremento superiore perfino a quelli registrati nel 2003 e nel 2004, anni in cui ha avuto effetto la regolarizzazione prevista dalla Legge 189 del 2002, nota come Bossi-Fini. Secondo l’Istat la causa è da imputare alla crescita, di oltre 280.000 unità, degli immigrati romeni, quasi raddoppiati in un anno (+ 82,7%). Il dato corregge in aumento le stesse previsioni diffuse da Eurostat ad inizio del 2008, che comunque già collocavano l’Italia al secondo posto nell’Unione Europea dopo la Spagna (dove sono considerati, però, anche gli ingressi irregolari) per aumento delle presenze straniere. Dal punto di vista delle dimensioni relative, la crescita del saldo migratorio si attesta intorno ad un tasso del 7,7 per mille, inferiore a Cipro, Spagna, Irlanda e Lussemburgo, ma, come sottolinea Bonifazi [2008], dal punto di vista delle dimensioni assolute la situazione di Spagna e Italia è del tutto eccezionale, dal momento che insieme i due paesi presentano un saldo migratorio di 1.140.000 unità, di poco inferiore al numero totale di ingressi regolari registrato negli Stati Uniti nel 2006. Incrementi di queste proporzioni spiegano come il numero totale di stranieri in Italia sia cresciuto enormemente negli ultimi anni. In realtà, secondo lo stesso autore, il dato dovrebbe essere interpretato alla luce della particolare situazione congiunturale del caso italiano, con effetti contabili che ne ridimensionano la rilevanza. E’ probabile, ad esempio, che nell’aumento record del 2007 siano compresi circa 161.000 cittadini romeni che pur avendo presentato domanda di prima assunzione nel 2006 erano di fatto già presenti sul territorio.

1. Le dimensioni del fenomeno

Il 17° Rapporto della Caritas Italiana e della Fondazione Migrantes [2007] stima una presenza di 3 milioni e 700 mila immigrati regolari, pari ormai ad una percentuale del 6,2% della popolazione complessiva, superiore alla media dell’Unione Europea. Il dato è criticato dal I Rapporto sull’immigrazione del Ministero dell’Interno [2007] che, operando un confronto tra 17 paesi europei su statistiche ufficiali, giunge a conclusioni opposte: si riconosce una forte crescita avvenuta negli ultimi dieci anni, che non porterebbe tuttavia a superare i paesi in cui il fenomeno dell’immigrazione ha una tradizione più lunga. Ciò su cui tutte le fonti concordano sono, invece, le differenze nella distribuzione territoriale: secondo l’Istat [2008b] il 62,5% degli immigrati risiede nelle regioni del Nord, il 25% in quelle del Centro ed il restante 12,5% nel Mezzogiorno, che tuttavia mostra una certa tendenza al ri-equilibrio.

Altro elemento certo è l’impennata registrata nel 2007. Tuttavia, se si confronta l’andamento del saldo migratorio degli ultimi cinque anni con i corrispondenti andamenti del saldo demografico naturale della popolazione immigrata e delle acquisizioni di cittadinanza italiana (con il segno negativo in quanto vengono sottratte nel calcolo dei residenti stranieri), si nota chiaramente come la tendenza precedente al 2007 fosse di riduzione del saldo migratorio e di crescita graduale degli altri due indicatori, di natura più strutturale (Fig.1). Ciò evidenzia ancor più chiaramente come il picco dell’ultimo anno sia dovuto essenzialmente al cambio di status dei cittadini romeni, passati ad essere “comunitari”, con gli effetti contabili già ricordati.

 

Figura 1 - Saldo naturale, saldo migratorio con l’estero e acquisizioni della cittadinanza italiana dei residenti stranieri, Anni 2003-2007

Figura 1

 

Fonte: Istat

La stessa crescita dell’immigrazione dall’Europa dell’Est, unita alla maggiore facilità d’ingresso che segue al processo di allargamento dell’Unione Europea, tende ad introdurre nuovi modelli migratori, con l’alternarsi di periodi di residenza e di rientro nei paesi d’origine. In questo caso, almeno per una parte crescente della popolazione straniera, alla residenza in Italia non corrisponderebbe più una presenza continuativa nel nostro paese. Questa maggiore complessità del fenomeno impone una riforma dei criteri statistici per valutare correttamente la mobilità interna all’Unione Europea [Bonifazi, 2008], altrimenti sopravvalutata. Inoltre, la diversità delle legislazioni che regolano l’immigrazione e l’acquisizione della cittadinanza, così come dei criteri statistici seguiti dai diversi Stati europei, non permettono di effettuare confronti esatti e disegnano un quadro estremamente articolato.

Le cautele da usare nei confronti delle diverse fonti di informazione sull’immigrazione non devono nascondere, tuttavia, il risultato di fondo, secondo cui in Italia l’immigrazione ha assunto un ruolo sempre maggiore negli ultimi dieci anni, che sembra destinato a crescere anche in futuro. Questo fenomeno sta indubbiamente modificando la struttura della società ed è causa di

sempre maggiori allarmismi. Allo stesso tempo, però, una lettura più approfondita delle informazioni disponibili, a cui sono dedicati i prossimi paragrafi, mette in luce gli effetti niente affatto allarmanti sull’economia italiana, che dovrebbero portare a riconoscere, da un lato, il contributo fondamentale portato dal fenomeno migratorio e, dall’altro, la mancanza di corrispondenti diritti.

2. Il bisogno di manodopera

I cittadini stranieri, dunque, sono portatori di competenze che potrebbero essere ulteriormente valorizzate, con un guadagno in termini di produttività che beneficerebbe tutto il sistema

Un primo contributo all’interpretazione della crescita dell’immigrazione in Italia è dato dall’analisi delle motivazioni che portano all’ingresso nel nostro paese. Secondo il rapporto Caritas [2007], l’incremento degli ultimi due anni, avvenuto anche in assenza di regolarizzazioni, può essere spiegato dall’aumento delle quote di ingresso: si sono avute circa 540.000 domande di lavoro e poco meno di 100.000 per ricongiungimento familiare, a cui si aggiungono quasi 60.000 nuove nascite. È dunque lo stesso sistema economico italiano a richiedere l’impiego di immigrati, ed è proprio la motivazione al lavoro che “seleziona” la popolazione straniera, più giovane di quella italiana e con un tasso di attività di 12-14 punti superiore. Gli occupati immigrati, inoltre, rispondono ad una domanda di lavoro che presenta condizioni più disagiate, come il lavoro in orari notturni o durante la domenica. Non solo, ma lavorano in media molto di più degli italiani, percependo retribuzioni più basse. Secondo dati dell’Inps [2007], il salario medio annuo di un lavoratore dipendente immigrato è di 11.036 euro, ossia poco più di 900 euro al mese, il 37% in meno delle retribuzioni medie di tutti gli iscritti. Queste caratteristiche dimostrano quale sia il vantaggio per le imprese ad assumere lavoratori immigrati, un vantaggio che si manifesta sia come mantenimento di attività che altrimenti non sarebbero sostenibili a causa della scarsa disponibilità di lavoratori italiani, sia come impiego di una maggiore quantità di lavoro ad un minor costo. I cittadini immigrati, inoltre, contribuiscono direttamente alla crescita dell’occupazione. Nel 2007, infatti, secondo il consuntivo Istat [2008a] sulla forza lavoro, la crescita occupazionale è stata di 234.000 lavoratori, dei quali ben 154.000 immigrati. Il dato riguarda il saldo tra assunzioni e pensionamenti e, dal momento che queste ultime sono molto inferiori nel caso dei lavoratori stranieri, risulta che i nuovi occupati immigrati determinano un effetto positivo sul tasso di occupazione molto più accentuato.

Questi dati non possono evitare una critica di fondo riguardo all’effetto dell’ingresso degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, ovvero la concorrenza al ribasso sulle condizioni di lavoro a danno dei lavoratori italiani, una sorta di social dumping interno al paese. Ma occorre riconoscere come stia aumentando la capacità dei lavoratori immigrati di rivendicare i propri diritti ed ottenere migliori condizioni di lavoro. Ne è dimostrazione la loro crescente partecipazione ai sindacati: nel 2005, in oltre 520.000 erano iscritti a Cgil, Cisl o Uil, pari al 20% in più rispetto al 2004 ed al 57% in più rispetto al 2003, come riportato da La Repubblica del 22 febbraio 2007.

Un altro argomento controverso riguarda la “qualità” del capitale umano rappresentato dai lavoratori immigrati, i cui livelli di formazione e di produttività vengono generalmente considerati inferiori a quelli della manodopera italiana. Ma anche da questo punto di vista i dati disponibili fotografano una realtà complessa. Secondo l’indagine Istat [2006] sulla partecipazione straniera al mercato del lavoro, l’impiego scarsamente qualificato sembrerebbe dovuto più alle condizioni svantaggiose del mercato piuttosto che alla bassa qualità dell’offerta di lavoro: il 40% degli immigrati laureati ed il 60% dei diplomati svolgerebbero un lavoro non qualificato. I cittadini stranieri, dunque, sono portatori di competenze che potrebbero essere ulteriormente valorizzate, con un guadagno in termini di produttività che beneficerebbe tutto il sistema. A ciò si deve aggiungere che spesso i cittadini immigrati sono fortemente motivati e sono portatori di una diversità culturale dalla quale potrebbe scaturire un arricchimento degli stili di vita ed una maggiore creatività, potenzialmente capaci di innovare settori produttivi tradizionali o maturi, come già avviene nel commercio, nella ristorazione ed in molti servizi territoriali.

3. L’impresa dei migranti

I lavoratori stranieri in Italia sono all’85% impiegati come lavoratori dipendenti. Ma tra di essi vi sono sempre più imprenditori, al punto che la crescita dell’imprenditoria immigrata è un fenomeno che sta raccogliendo sempre maggior interesse. Già a fine 2006, secondo Unioncamere, oltre un terzo delle nuove aziende aveva titolare immigrato, per un totale di 227.500 imprese attive, più che raddoppiate rispetto al 2001, quando la cifra era di 105.000. L’espansione si è registrata in modo particolare negli ultimi cinque anni, a tassi di crescita vicini al 10%. Anche nel corso del 2007 le imprese individuali “immigrate” sono aumentate dell’8%, nonostante un calo generale dello 0,9% [Unioncamere, 2008]. Si concentrano nelle grandi città del Centro Nord come Milano, Roma, Torino e Firenze e si dedicano prevalentemente al commercio, alle costruzioni, alle attività manifatturiere ed ai trasporti. Ormai rappresentano in media il 6,5% delle ditte individuali complessive, un’incidenza leggermente superiore a quella della popolazione immigrata sul totale nazionale, che manifesta una spiccata imprenditorialità. In alcune regioni, in particolare, la quota raggiunge livelli elevati, come in Toscana (10,4%), Lombardia (9,4%), Emilia Romagna e Liguria (8,9%). Si tratta, inoltre, di imprese “giovani” in tutti i sensi: il 15% degli imprenditori immigrati ha meno di 30 anni, quindi rappresentano investimenti o “scelte di vita” che hanno un orizzonte temporale ampio.

Non si tratta, poi, di attività economiche di “serie B”. Secondo una ricerca di Unioncamere [2007] in collaborazione con Nomisma, Crif e Adiconsum sui comportamenti finanziari e creditizi, il 70% degli imprenditori immigrati ha rapporti con le banche ed il 40% ha chiesto un prestito per avviare o ampliare la propria impresa. Allo stesso modo, non sono nemmeno attività “parassitarie”, ovvero che ottengono vantaggi dal nostro sistema economico senza restituire nulla. La stessa ricerca, infatti, rileva che la destinazione principale dei profitti è l’aumento dei consumi, il 25% degli imprenditori immigrati ritiene che l’aumento dei proventi debba essere reinvestito in azienda e solo il 2% dei profitti è inviato al proprio paese di provenienza come rimessa. Questi comportamenti identificano attività economiche che hanno l’obiettivo di sostenere le famiglie dei titolari in Italia, con la speranza di poter crescere nel tempo. La maggior parte dei nuovi imprenditori, infatti, proviene dalla Cina, dal Marocco e dall’Albania, ovvero appartiene a correnti migratorie di più lunga durata. Si tratta dunque di un segmento di popolazione immigrata con una maggiore propensione ad integrarsi nel sistema economico italiano. Un articolo dell’ex-ministro Bonino [2007] mette in luce alcune delle opportunità che possono aprirsi anche alle aziende italiane grazie alla crescita degli imprenditori immigrati, prime fra tutte la possibilità di una maggiore internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, a basso costo grazie ai contatti ed ai canali diretti che i cittadini stranieri attivano con i paesi di provenienza. Il legame capillare delle imprese immigrate con il territorio di residenza può poi moltiplicare questi vantaggi all’interno del sistema. Inoltre, gli imprenditori immigrati grazie alle proprie motivazioni sono generalmente più propensi al rischio e quindi possono assumere un ruolo di stimolo anche in periodi di rallentamento dell’economia o di ridimensionamento delle piccole e piccolissime imprese italiane, come peraltro si può notare dai dati già citati sulla crescita delle imprese individuali nel 2007.

Questa spinta può rappresentare anche un contributo in termini di innovazione. I dati dell’ultimo anno, infatti, oltre a confermare il ruolo dei settori tradizionali come quello edile e del commercio, che insieme concentrano oltre il 70% delle imprese immigrate, testimoniano una crescita notevole dei servizi (+13%) che pure rappresentano ancora solo il 4,2% delle aziende con titolare immigrato. Molte di queste attività terziarie si rivolgono alla stessa popolazione migrante per rispondere a bisogni nuovi dei consumatori, come le comunicazioni con i paesi di provenienza.

Questo gruppo di attività, tuttavia, nonostante abbia attratto su di sé un’attenzione crescente, non incontra ancora servizi adeguati dal punto di vista dell’accesso al credito, della formazione e dell’assistenza professionale e si scontra con ostacoli burocratici che in molti casi determinano un’elevata mortalità. Da più parti si è denunciata la mancanza di politiche d’incentivo e di normative dedicate alle imprese immigrate.

4. Il contributo all’economia italiana

Se si allarga il campo d’indagine anche ad altri aspetti dell’economia italiana, oltre al solo mercato del lavoro, si possono notare ulteriori caratteristiche dell’immigrazione che con il passare del tempo manifesta sempre di più una notevole capacità di complementare il sistema, sostenendolo proprio in corrispondenza dei propri elementi di debolezza.

In primo luogo, la presenza produttiva della popolazione migrante contribuisce in modo sempre più determinante alla formazione del Prodotto Interno Lordo (PIL) italiano: è possibile affermare che senza l’apporto di lavoratori e imprenditori stranieri il nostro paese si sarebbe trovato in recessione già da alcuni anni. Anche in questo caso le stime sull’ammontare di questa ricchezza prodotta sono controverse, ma in ogni caso descrivono una situazione sorprendente. La stima più prudente è elaborata dalla Banca d’Italia, secondo cui nel 2006 gli oltre tre milioni e mezzo di cittadini immigrati avrebbero contribuito al 3,2% del PIL. Una percentuale che, secondo il Rapporto 2007 Caritas/Migrantes, dovrebbe salire al 6,1% a fronte di un peso sulla popolazione totale del 6,2%, grazie ad elevati tassi di attività ed occupazione. Ma si tratta ancora di una stima prudente, perché presuppone un basso livello di produttività, che, come abbiamo visto, non è un risultato scontato. Ancora oltre si spinge la stima di Unioncamere [2008], elaborata in collaborazione con l’Istituto Tagliacarne, che, a partire da un’analisi settoriale delle attività produttive svolte dai migranti nelle diverse Regioni, calibrata con i dati Istat ed aumentata della componente “irregolare” o sommersa, indica un contributo a livello nazionale pari al 9,2% del PIL nel 2006, a fronte dell’8,8% stimato per il 2005. In alcune regioni, come Lombardia, Veneto, Emilia Romagna ed Umbria, questo apporto supera addirittura l’11%, mentre dal punto di vista dei settori produttivi è pari al 20% del valore aggiunto prodotto dalle costruzioni, mentre nei servizi scende al 7,8%.

Il reddito prodotto da quella che potrebbe essere definita l’“economia dei migranti” è una ricchezza che tende a rimanere sempre più in Italia al crescere del grado di integrazione, soprattutto attraverso la spesa per consumi che contribuisce a formare la domanda aggregata. In particolare, si possono identificare alcuni consumi verso i quali la popolazione immigrata presenta una propensione elevata. È il caso, ad esempio, della telefonia mobile, che può essere considerata un servizio necessario sia per motivi di lavoro che per una situazione abitativa meno stabile. Se si considera che il mercato italiano in questo settore è tra i più grandi del mondo e che ogni cittadino immigrato potrebbe essere dotato di un cellulare, è evidente che questo target di potenziali clienti è molto importante per compagnie telefoniche, produttori, centri di chiamata, ecc. Altri mercati “trainati” dagli immigrati possono essere considerati quello delle automobili usate ed il mercato degli elettrodomestici.

Nascite in un paese che invecchia

In secondo luogo, un altro aspetto cruciale per valutare gli effetti della crescita dell’immigrazione è il contributo demografico dato al paese ospitante. Nel caso italiano è solo grazie alle nascite nelle famiglie straniere che la popolazione residente non diminuisce, e ciò, come vedremo nei prossimi paragrafi, produce effetti positivi su tutti gli aspetti dinamici dell’economia nazionale. Secondo i dati Istat [2006] del bilancio demografico nazionale, il saldo naturale dell’Italia nel 2005 è stato leggermente positivo proprio in virtù della nascita di quasi 52.000 figli di cittadini immigrati, il 9,4% dei nuovi nati, una percentuale – in quell’anno – doppia rispetto alla quota di popolazione immigrata sul totale. In base a questi dati, il Sole 24 Ore aveva stimato che senza il contributo demografico degli stranieri la popolazione residente sarebbe diminuita tra il 1993 ed il 2005 di ben 650.000 abitanti. A ciò deve aggiungersi che non rientrano tra le nascite di cittadini immigrati i figli delle coppie miste, in crescita negli ultimi anni, che per lo ius sanguinis acquisiscono la cittadinanza italiana. Inoltre, la popolazione residente aumenta anche grazie ai ricongiungimenti familiari, che, sebbene rappresentino una quota piccola degli ingressi nel paese, sono raddoppiati tra il 2000 ed il 2005 dimostrando la tendenza crescente della popolazione immigrata a stabilirsi in Italia.

Questo apporto demografico sembra l’unico fenomeno capace di contrastare il progressivo “invecchiamento” del paese. Oltre un quinto dei cittadini immigrati sono minori, la metà ha un’età compresa tra i 18 ed i 39 anni. Come nota Bonino [2007], una porzione sempre maggiore della popolazione giovane è costituita da cittadini stranieri, che di conseguenza sono destinati a svolgere un ruolo decisivo in futuro. La capacità di trasformazione, crescita e adattamento, non solo dell’economia, ma dell’intera società, dipenderà in misura crescente dal “dono” di questa nuova generazione, o meglio “seconda generazione” come ormai viene definita. Secondo gli ultimi dati, i minori stranieri nati in Italia hanno raggiunto nel 2007 il numero di 457.000 giovani, il triplo del 2001 e rappresentano il 60% del totale dei minori stranieri residenti.

La “finanziaria” che viene dall’estero

In terzo luogo, i cittadini immigrati contribuiscono attraverso diversi canali alle finanze dello Stato. In modo diretto, versano le imposte sul reddito prodotto, le tasse locali ed i contributi pensionistici, ma pagano anche le imposte indirette sui propri consumi, che come noto hanno natura regressiva. In base alle rilevazioni dell’Agenzia delle Entrate, nel 2004 gli stranieri residenti in Italia hanno presentato 2.259.000 dichiarazioni dei redditi, un numero corrispondente ad oltre l’80% degli immigrati regolari, ed hanno versato imposte dirette per 1,87 miliardi di euro. A fronte di questo apporto finanziario dovrebbe corrispondere l’erogazione di adeguati servizi pubblici, sui quali, tuttavia, i cittadini stranieri non hanno nessun potere, decisionale o consultivo, non essendo riconosciute forme di rappresentanza politica nemmeno a livello di enti locali.

Un ulteriore canale attraverso cui i lavoratori stranieri beneficiano le finanze pubbliche sono i contributi pensionistici. I dati del II Rapporto su immigrati e previdenza dell’Inps [2007], basati sul censimento del 2003, indicano un numero di cittadini extra UE iscritti a quella data di oltre 1.470.000. Se si considera per ognuno di essi il versamento di un contributo pensionistico medio tra i 2.500 ed i 3.000 euro l’anno, si giunge ad una stima del gettito di oltre 3 miliardi di euro l’anno. Questo apporto al sistema pensionistico è di grande rilevanza, se si considera che gli stranieri che ricevono una pensione dallo Stato italiano sono ancora molto pochi, 285.000 a inizio 2006, di cui 112.000 con assegni di anzianità. Se si considera la tendenza all’invecchiamento progressivo della popolazione italiana ed i costi della riforma del sistema pensionistico, si tratta di un guadagno netto molto elevato per l’Inps, che contribuisce in misura determinante alla sua sostenibilità, a beneficio di tutta la comunità dei lavoratori. Questo effetto positivo potrà durare ancora almeno per una generazione, dal momento che la maggior parte degli stranieri residenti ha un’età inferiore ai 40 anni. Si può dunque affermare che sui lavoratori immigrati si regge l’intero sistema pensionistico italiano.

Il forte incremento delle entrate pubbliche da attribuire al fenomeno dell’immigrazione pone un serio problema di giustizia economica, ovvero la necessità di valutare la corrispondenza tra contributi versati e benefici ottenuti dai cittadini immigrati. Certamente ai residenti stranieri, anche irregolari, è destinata una quota crescente della spesa scolastica e sanitaria, ma il problema si pone per tutti gli altri servizi pubblici, oltre che in occasione di riduzioni della spesa pubblica nei settori maggiormente “sensibili” alla presenza immigrata. Anche una visione meramente contabile del loro contributo all’economia del paese porta a considerare i servizi pubblici resi ai cittadini stranieri come un diritto e non una concessione.

I vantaggi per il mercato

A beneficiare della presenza immigrata non sono solo i conti pubblici ma anche le imprese private. In particolare le banche ordinarie, che hanno visto crescere in modo esponenziale il numero di clienti stranieri. Questo incremento è stato addirittura maggiore della crescita della popolazione immigrata, dal momento che questa, nel tempo, ha intensificato il rapporto con gli istituti bancari. Indagini condotte da ABI e Cespi [2007] rilevano come tra il 2005 ed il 2007 i clienti immigrati siano passati da 1.058.000 a 1.410.000, un aumento del 33%. La statistica prende come riferimento i cittadini adulti non appartenenti a paesi dell’OCSE, che nello stesso periodo sono cresciuti del 21%. Di conseguenza il cosiddetto indice di “bancarizzazione”, ovvero la percentuale di popolazione che intrattiene rapporti con le banche, è aumentato, passando dal 60% al 67% del totale delle persone provenienti dai paesi non OCSE. Anche questo fenomeno, che rappresenta un beneficio importante per il sistema bancario, è legato all’integrazione, sotto diversi punti di vista. Da un lato dipende dal tempo di permanenza, dal momento che un’immigrazione stabile o di lunga durata favorisce il ricorso alle banche. In secondo luogo, è sensibile al miglioramento delle condizioni contrattuali e salariali dei lavoratori stranieri: l’indice di bancarizzazione, infatti, è superiore alla media in caso di lavoro dipendente a tempo indeterminato (70,5%), di lavoro autonomo regolare (69,6%) e di contratto a progetto (67,7%), se non altro grazie all’accredito in banca dello stipendio.

Importante “regolatore” dell’economia nazionale, collegato al sistema bancario attraverso la concessione dei mutui, anche il mercato immobiliare ha tratto vantaggio negli ultimi anni dal fenomeno dell’immigrazione. Mentre alcuni anni fa la quota di residenti stranieri in grado acquistare una casa era molto bassa e le condizioni abitative della popolazione migrante estremamente precarie, di recente si registra una tendenza opposta. Secondo dati forniti da Caritas/Migrantes, confermati da altre ricerche di settore, nel 2006 oltre il 15% degli acquisti di immobili è stato effettuato da residenti stranieri, che, in particolare, rappresentano quasi la metà del mercato delle prime case, per un giro d’affari di circa 1,5 miliardi di euro. Tuttavia essi coprono ancora un segmento di offerta immobiliare di bassa qualità, sia per le condizioni degli alloggi, spesso da ristrutturare, che per le loro dimensioni ridotte, con fenomeni di sovraffollamento. Anche il contributo notevole dato al mercato delle abitazioni presenta ulteriori possibilità di sviluppo nel caso di una maggiore integrazione.

Il mercato bancario e immobiliare forniscono solo alcuni esempi dell’incidenza dei migranti sul settore privato dell’economia italiana, che permette di considerare i cittadini stranieri come veri e propri agenti economici locali. Gli effetti sul territorio ospitante sono di gran lunga maggiori rispetto al trasferimento di ricchezza operato a favore dei paesi d’origine attraverso le rimesse. Secondo le rilevazioni dell’Ufficio Italiano Cambi, queste ultime hanno raggiunto nel 2006 la cifra record di 4,35 miliardi di euro, e sono state effettuate, secondo ABI e Cespi, dal 77,6% dei cittadini immigrati, che in grande maggioranza continuano ad inviare denaro alle proprie famiglie oltre frontiera anche a distanza di dieci anni dall’ingresso in Italia. Tuttavia, secondo la Banca d’Italia, questa cifra rappresenta ancora una percentuale modesta del PIL, appena lo 0,15%, superiore alla quota, decrescente, destinata dall’Italia agli Aiuti allo Sviluppo. Il fenomeno risente, inoltre, della normativa che regola l’immigrazione, in particolare nei riguardi dei ricongiungimenti familiari, resi molto difficili dai requisiti richiesti in termini di sicurezza del posto di lavoro, qualità dell’alloggio ed ammontare del reddito e per gli ostacoli burocratici. Di conseguenza la necessità di inviare denaro al proprio coniuge o ai propri figli all’estero si mantiene elevata. Anche su questo aspetto, dunque, incide l’effettiva possibilità di integrarsi nella società italiana, in quanto la spesa “locale” delle famiglie immigrate per la casa, l’acquisto di beni di consumo, l’educazione dei figli, i servizi finanziari, ecc. aumenta con il miglioramento e la stabilizzazione delle proprie prospettive di vita.

5. Conclusioni

La breve rassegna sui principali effetti economici della crescita dell’immigrazione permette di mettere a fuoco elementi spesso sottovalutati dall’opinione pubblica. In particolare, il saldo migratorio positivo, caratterizzato dalla ricerca di opportunità di lavoro, ha rappresentato negli ultimi anni una risposta efficace, sebbene non programmata, ad alcuni problemi strutturali del paese, come l’invecchiamento della popolazione, la sostenibilità del sistema pensionistico, la stagnazione economica. D’altra parte le caratteristiche demografiche e del capitale umano della popolazione immigrata possono essere considerate un’opportunità di crescita e di innovazione del tessuto imprenditoriale, della produzione e dei mercati.

I dati dimostrano l’esistenza di effetti positivi concreti e già acquisiti dal sistema italiano, ma occorre sottolineare che molti dei fenomeni discussi rappresentano benefici “potenziali” e la loro realizzazione può dipendere in modo cruciale dalle politiche migratorie messe in atto. Come sottolinea Boeri [2006], tali politiche dovrebbero avere l’obiettivo di regolare, graduare i flussi e, possibilmente, modificarne la composizione in modo da rendere massimo l’effetto positivo sul paese ospitante. Se da una parte, infatti, l’immigrazione determina sempre una maggiore crescita economica, dall’altra un aumento intenso e concentrato nel tempo degli ingressi può incidere negativamente sulle relazioni di convivenza e, più in generale, sul capitale sociale dei territori di destinazione, in quanto determina emergenze che non facilitano l’integrazione. La volatilità dei flussi migratori verificatasi negli ultimi anni segnala una difficoltà grave delle politiche migratorie italiane nel perseguire i propri obiettivi.pdf

Per cogliere le potenzialità positive dell’immigrazione ed al tempo stesso scongiurarne la deriva – che alla luce dei fatti risulterebbe irrazionale anche dal punto di vista economico – è da auspicare il passaggio da un approccio di “contenimento” ad uno volto all’integrazione, incentivando i comportamenti virtuosi e la progressiva stabilizzazione delle presenze straniere. Se il 10% dei nuovi nati in Italia è costituito da cittadini stranieri, il successo o l’insuccesso della loro integrazione coincide già adesso con il successo o l’insuccesso dell’intero paese in futuro.

 

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