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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfNon c’è un solo paese al mondo che sia libero dalla violenza verso le donne: essa è spesso condotta in maniera sistematica, pervasiva, anche invisibile; una violenza di natura fisica, psicologica, economica; spesso nei conflitti diventa anche un’arma per colpire una comunità. Come sostiene l’agenzia dell’ONU per la promozione di genere1, le donne sono una parte attiva nei conflitti, combattono accanto agli uomini, sopravvivono al terrore o ai campi di rifugiati, sono oggetto di abusi di ogni genere, perpetrati persino dai membri dei settori di sicurezza o dai peacekeepers. Eppure anche quando i conflitti cessano, raramente sentiamo la loro voce!

Nell’anno 2000 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha emanato una risoluzione2, il cui tema è Donne, Pace e Sicurezza, adottata il 31 Ottobre 2001. Nelle intenzioni essa rappresenta una promessa importante alle donne di tutto il mondo: riafferma l’importanza del loro ruolo nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nei processi di costruzione della pace; stressa l’importanza della loro piena partecipazione e uguale coinvolgimento negli sforzi di costruzione di un modello di sicurezza inclusivo; e pone l’accento sul bisogno di dare spazi e ruoli alle donne nel decision-making, considerando la loro attiva presenza e contribuzione come parte della soluzione ai problemi che la sicurezza solleva. È la promessa di credere che esse dovrebbero mediare nei conflitti accanto ed insieme agli uomini. La pace, il modo in cui si costruisce e si rafforza, sono un affare che riguarda tutti, anche le donne.

L’enfasi posta dalla risoluzione sulla genderizzazione della pace e della sicurezza rappresenta una prospettiva che oltrepassa la semplice dichiarazione di principio. Essa “pretende” il riconoscimento di un’urgente prospettiva gender nei processi di peace-keeping e peace-building; si radica nell’idea che la sicurezza è un bene, che può essere usufruito solo “in comune” da tutti, ma non in maniera indistinta e neutrale: fino ad oggi le donne sono state sistematicamente messe da parte nella creazione e sviluppo dei sistemi di sicurezza; continuano ad essere percepite come vittime, più che come attori del sistema. Non solo le politiche che le riguardano sono sempre state marginali e secondarie, ma la loro stessa partecipazione alla strutturazione del contesto di sicurezza è stata minimale, anzi passiva. È l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) ad affermare che le cattive politiche, la giustizia ed i sistemi penali deboli, la corruzione tra militari comportano per le donne una sofferenza sproporzionata a causa della violenza nei loro confronti, dell’insicurezza e della paura. Per loro c’è una minore probabilità di accedere a servizi governativi, di investire nel proprio futuro e fuggire dalla povertà, perché soggetti vulnerabili3. Ne consegue che è un loro diritto far sentire la loro voce.

Pur essendo pochi i dati su risultati positivi, derivanti dalla loro inclusione nei processi di pace e nelle negoziazioni, alcuniricercatori4 sostengono che le donne abbiano una capacità di comprensione più profonda delle radici dei conflitti; che abbiano una visione olistica nell’approccio ai problemi; che siano motivate dal sogno di un futuro migliore per sé stesse e per i loro figli e siano focalizzate su aspetti molto concreti e pratici, legati alla qualità della vita ed alla sicurezza, più che sul controllo del potere politico; che riconoscano e affrontino con coraggio la marginalizzazione e gli abusi; che diano importanza alle relazioni positive nelle negoziazioni, portando in gioco la loro identità personale, più che la funzione cui si collegano5.

La risoluzione 1325 ha obiettivi strategici chiari: il primo è rendere consapevoli tutti che la sicurezza e l’insicurezza hanno un’influenza diversa sugli uomini e sulle donne, a causa della diversità di “ruoli”sociali; questa diversità diventa più marcata nei conflitti, dove aumentano le probabilità di violenze, torture, lavoro forzato, traffici illegali; ma anche nei percorsi di riappacificazione e ricostruzione di società in transito alla democrazia, dove le istituzioni sono ancora deboli; il secondo obiettivo è la necessità di una volontà politica concertata che porti alla creazione di piani d’azione, comprensivi di aspetti importanti anche per le donne, per il peso che esse hanno all’interno della comunità; il terzo è la necessità di creare “good practices” nel campo della partecipazione; l’ultimo è quello di servire come piattaforma nei processi di creazione e costruzione di capacità6.

Il punto di partenza è la comprensione del termine gender, che è un termine relazionale: esso riflette non solo una differenza sul piano puramente biologico – sessuale, piuttosto implica aspettative sulla vita, lavoro, scelte per un uomo o una donna, in base a cosa sia culturalmente appropriato; è una costruzione sociale, in cui donne e uomini hanno ruolo, poteri e rapporti di interazione, acquisiti su identità trasmesse e fatte proprie; attiene alla valutazione di come uomo e donna si rapportano tra loro, grazie alle caratteristiche associate alla mascolinità ed alla femminilità. Tuttavia a tali aspetti si da una connotazione di “naturalità”7. L’errore sta nel confondere il termine gender con il termine donna; esso ha, invece, attinenza con la modalità di relazione. Il gender mainstreaming, che è il processo di affermare le implicazioni, per uomini e donne, di azioni pianificate a livello legislativo, politico o programmatico, rappresenta il piano di lavoro per dare risalto a queste differenze di identità sul piano sociale; ed ha come obiettivo la partecipazione di tutti gli attori nella definizione del sistema sociale.

Questo compito è importante perché, fino ad oggi, gli aspetti conflittuali, a livello nazionale ed internazionale, sono stati risolti con l’istituzione di meccanismi, che di norma riflettono le differenze di ruolo e di potere, più che le cause stesse dell’insicurezza. La cultura predominante maschile ha modellato il panorama della sicurezza, con la conseguenza che essa è monopolio di coloro che si ritengono gli unici attori ed i soli possibili mediatori delle situazioni di crisi. Questo tipo di concezione a senso unico non solo è stata spesso causa di problemi nei conflitti in genere, ma ha prodotto problemi anche nelle operazioni di peacekeeping. In Somalia soldati, addestrati ad una cultura militare tipicamente guerriera, sono stati assegnati ad operazioni nelle quali le regole d’ingaggio non prevedevano che si combattesse8, in contesti di grande rischio, sofferenza ed instabilità. Nella maggior parte delle organizzazioni militari, gli stereotipi maschili sono accentuati e con gradi diversi. La conseguenza di training inappropriati o inadeguati è che le popolazioni locali percepiscono i comportamenti dei militari peacekeepers come provocazione, più che come pacificazione, vanificando anche l’efficacia delle operazioni in molti casi9. Vari studi hanno analizzato l’impatto dei conflitti armati sulle donne, ma poche ricerche hanno valutato se la loro presenza, oltre ad un’adeguata formazione in campo gender dei militari nelle operazioni di pace e di supporto, possa avere un impatto sull’attitudine di coloro che compongono i contingenti, oltre che ad aiutare a modificare la percezione locale. L’analisi gender ha prodotto l’effetto di evidenziare aspetti, fino ad ora ignorati o trascurati.

La risoluzione 1325, con occhio critico, apre uno spiraglio su questa nuova percezione. Mette in luce ciò che è stato trascurato: la differenza che le donne potrebbero fare, se la dominanza maschile nell’industria del peace keeping fosse sfidata. L’inclusione delle donne non è esclusivamente a beneficio delle stesse; il contributo che esse portano è altrettanto interessante per tutta la collettività, perché nella trasformazione delle attitudini e pratiche, di strutture e competenze generali si gettano le fondamenta di un possibile cambio, a livello locale e globale, nel tentativo di costruire una pace permanente. Fa effetto la frase pronunciata dal Presidente del Ruanda, Paul Kagame: “Dopo il genocidio, le donne si sono rimboccate le maniche e hanno rimesso in moto la società”. Le donne sono l’anima e il motore di una comunità, hanno il polso delle emozioni del gruppo. Il modo in cui vedono le cose è determinante, perché sono nella posizione di dare informazioni essenziali sui processi più che sui risultati, di mobilizzare la comunità quando è l’ora della riconciliazione, di trovare le energie che risanano le ferite dei conflitti; una donna ci pensa bene prima di mandare un figlio o un marito a morire in guerra. Spesso questo approccio è dettato più da un sentire che dall’applicazione di un procedimento sistematico, una sorta di metodologia appresa di non violenza, sperimentata con tecniche diverse, che le donne vedono come contromisura ad una fallita politica della violenza10. Ci sono in ballo processi psicologici, più che risultati dovuti a piani strategici. La pace e la sicurezza sono anche compito loro. Il problema sembra essere proprio il modo in cui esse vedono le cose e l’analisi gender lo dimostra.

Molti ordinamenti moderni prevedono, almeno in linea di principio, l’uguaglianza formale tra uomini e donne; ma questo riconoscimento può essere una maschera di neutralità che nasconde una problematica. Il richiamo della legge all’uguaglianza dei sessi copre i ruoli differenziati del sociale, e questo avviene ancor di più nelle situazioni di crisi e di conflitto11. L’obiettivo, cui tende la legge è svilito, perché al linguaggio formale non corrisponde la sostanza della realtà. Ad un sociale differenziato non può bastare un modello unico di riferimento, un’unica cultura della pace o di sicurezza; così non c’è vera uguaglianza e partecipazione.

La ricerca nel campo gender è stata lo stimolo per discorsi alternativi nel campo della sicurezza, che diano spazio ad una visione olistica, comprensiva anche della visione che le donne ne hanno. Non nasce solo dal bisogno di un efficace strumento di applicazione di politiche sociali, che riconoscano effettiva dignità alle donne, ma dalla consapevolezza della necessità di cambiare il concetto di sicurezza, così com’è stato fino ad ora genericamente prospettata, per arrivare a concepirne una nuova, più ampia, di natura inclusiva. Devono esistere possibilità per trasformare la retorica dell’uguaglianza formale in prassi e questo avviene anche consentendo alle donne di ideare e partecipare con meccanismi propri, originali, non copiati dai modelli maschili della politica.

C’è un legame stretto fra inclusività, democrazia, diritti umani e sicurezza. Nel documento UNDP del 199412 si fa riferimento ad un concetto più ampio di sicurezza, definita umana13, la quale raggruppa in sé, quella economica, incluso accesso alle fonti di sostentamento, quella riguardante la salute, l’ambiente, la sicurezza personale e della comunità, e la sicurezza politica; nel definirne i parametri, specialmente nelle società che devono superare la cultura della violenza e della militarizzazione in seguito ad un conflitto, tutti gli attori/fruitori della sicurezza ed il modo in cui li si include nel processo sono importanti: la partecipazione di tutti gli stakeholders evita il rischio di accentrare nelle mani di poche elite la definizione dei rischi posti alla sicurezza, dando la possibilità di sviluppare un dialogo multi-dimensionale, con una visione che vada aldilà del solo focus politico e militare.

Il primo passo è intendere che la sicurezza umana è il complemento della struttura dei diritti umani; deve anch’essa delinearsi come sicurezza inclusiva, tale da riferirsi a tutti i soggetti cui è diretta. L’impianto dei diritti umani fa da sostegno al concetto di sicurezza inclusiva, dando un ruolo importante al diritto internazionale umanitario14. Quando dei soggetti non sono “specificamente” protetti dal diritto internazionale umanitario significa che s’insiste solo su un concetto di sicurezza che dà priorità alla sicurezza nazionale o a quella genericamente intesa come stato-centrica, ma non a quella inclusiva, fondata sulla persona. L’inclusività della sicurezza è solo un aspetto della democrazia inclusiva, la sola che ha come vocazione naturale quella di dare uno spazio maggiore ai diritti umani.

Questo allargamento di prospettiva nel campo dei diritti, è il risultato di un lungo lavoro storico sui diritti delle donne, la parte, più sofferta potremmo dire, del lavoro sui diritti umani in genere. Una breve scorsa al fenomeno è interessante ai fini dell’analisi in corso.

Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo solo in maniera implicita si allude alla violazione dei diritti delle donne, perché spesso tali violazioni si manifestano in una sfera strettamente privata e della famiglia, nella forma di violenza fisica o abuso sessuale. Per lungo tempo, sulla convinzione che il diritto internazionale dovesse maggiormente focalizzarsi sulla sfera pubblica, particolarmente in rapporto ai diritti civili e politici, la lotta per i diritti umani, invece, è stata “gender neutral”; non ha tenuto conto della voce delle donne15.

A partire dal 1948, sull’onda della creazione di una serie di strumenti legali di tutela dei diritti umani, è nata la Convenzione sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (CEDAW), ratificata ad oggi da oltre 177 paesi; essa rappresenta il primo strumento internazionale legalmente vincolante che vieta la discriminazione contro le donne; obbliga anche i governi a pianificare dei passaggi legislativi per la sviluppo dell’uguaglianza di genere; inoltre ha previsto l’incorporazione nei loro sistemi istituzionali ed un monitoraggio degli sforzi nazionali.

Il 1975 è stato l’anno internazionale della donna ed ha coinciso con la prima conferenza mondiale sulle donne in Messico, i cui temi fondamentali sono stati tre: eliminazione di ogni discriminazione di sesso; integrazione e completa partecipazione delle donne allo sviluppo; contributo delle donne alla promozione della pace.

Nel 1995 la Beijing Platform for Action (BFPA), emersa dal quadro della quarta conferenza mondiale sulle donne in Cina, è stata la pietra miliare per il riconoscimento internazionale e l’ampliamento dei principi base già elaborati in Messico. Proprio in tale piattaforma la questione dell’impatto dei conflitti armati sulle donne si è presentato come un problema pressante, che richiedeva specifica e urgente attenzione. Con la Risoluzione 1325 è avvenuto il primo riconoscimento “formale” della necessità di un collegamento dal piano nazionale a quello internazionale in campo gender; e della necessaria inclusione “sistemica” delle donne nei processi di pace e sicurezza.

Nel Novembre del 2000 anche il Parlamento Europeo adotta una sua risoluzione - EP Resolution 2000/2025 (INI). Con essa legittima la piena partecipazione delle donne ad un ruolo attivo nella comunità internazionale e nei processi di negoziazione. È interessante notare che qui il gender mainstreaming è considerato dalla risoluzione come vitale, non opzionale o secondario. Significa che se è vitale al processo di creazione della pace, la sua mancanza va ad incidere sull’efficacia e la riuscita delle operazioni inerenti alla sicurezza, della creazione della pace e dello sviluppo sostenibile: in altre parole, è un dato essenziale.

Nonostante il lavoro enorme prodotto a livello di convenzioni internazionali, di regolamenti delle organizzazioni non governative, di legislazioni nazionali, di rapporti, resoconti, linee guida, che avrebbero potuto e dovuto essere la pista di lancio di un’azione globale, il passaggio dal piano formale al piano sostanziale dei diritti in campo gender incontra enormi ostacoli all’inclusione delle donne.

Il ruolo cruciale che può svolgere l’implementazione della legislazione sulle donne ed il gender mainstreaming in questo campo è di trasformare l’interpretazione dei termini conflitto, sicurezza, pace: riconoscendo che il conflitto è espressione naturale di differenze sociali e della perenne sfida dell’umanità all’autodeterminazione, si riconosce che una delle vie per sradicare la violenza dalla vita sociale, ed in particolare da quella delle donne, è la gestione efficace degli interessi di tutti; come necessario corollario, il gender mainstreaming fa sì che non solo vi siano politiche che contemplino soluzioni ai problemi del mondo femminile, ma che siano le donne stesse ad avere un peso politico ed economico maggiore nell’ideazione e applicazione di meccanismi partecipativi e risolutivi.

Un aspetto critico è che il discorso gender si collega erroneamente al modello del femminismo, che punta su un’idea distorta di competizione tra uomo e donna. Due aspetti dell’analisi sono importanti: l’identità individuale, vale a dire, il modo in cui nella cultura si continua a percepire ciò che significa essere “maschile” e “femminile”; e le strutture di potere. Dando a questi due aspetti la connotazione di “naturale”, più che di “sociale”, cioè di costruito, si continua a ritenere che chi possiede un corpo femminile debba essere debole, irrazionale, passivo, emotivo e bisognevole di protezione, incapace di efficace azione e partecipazione politica. All’opposto, per il maschile gli aggettivi che lo identificano sono forza, coraggio, concreto, dominante, razionale, pensiero, ecc. Il gender diventa così un codice simbolico, che permea tutti gli aspetti ed idee della politica, sicurezza, relazioni internazionali, ecc. La conseguenza è che non solo modella il modo in cui percepiamo il rapporto uomo – donna e le loro identità, ma anche il mondo e le sue connotazioni.

L’importanza simbolica del gender affiora in specifici contesti, dove si vede un rapporto evidente tra un certo attivismo a favore della guerra, della corsa alle nuove e potenti tecnologie sugli armamenti, di un modello di politica aggressiva in risposta a questioni poste dalla paura verso il terrorismo, la globalizzazione, l’ecologia, le povertà; questi sono i tratti tipici di un certo tipo di mascolinità eroica, rispetto ad una visione di pace vista come valore relativo, emotivo, irrealistico, passivo e tutto sommato indesiderabile16. L’associazione simbolica con la mascolinità ha prodotto fino ad ora i suoi effetti visibili nel campo della politica e delle relazioni internazionali, dove spesso si usa il termine realismo politico, per dare fondamento a certe pratiche. La mancanza di una di un’analisi gender ed i tentativi di produrre cambiamenti della realtà, pertanto, sono stati incompleti ed inadeguati.

La conseguenza è che in questa situazione, il gender mainstreaming non è percepito come una questione di legittima ed essenziale considerazione; è secondario rispetto ad altri temi come sicurezza dello stato, stabilità, ordine mondiale, sviluppo economico; ma il fatto è che se si omette di vedere il codice simbolico che soggiace a tutto questo, non si fanno i conti con l’incapacità di dare risposte politiche definitive, certe. Il discorso gender non è marginale, come fanno capire la Risoluzione 1325 e le altre convenzioni, ma essenziale; esso rende manifesto il modo cui si vede e si costruisce la realtà, evidenziando che non è del tutto “naturale” il modo in cui le questioni politiche vengono pensate e rappresentate; non è del tutto “naturale” un certo tipo di leadership politica; il discorso non è solo riferibile ad una maggiore protezione delle donne, alle quote a disposizione, all’empowerment, non si tratta di femminismo. Si tratta di capire che il gender mainstreaming è capace di prospettare alternative alla cultura attuale della sicurezza. La mascolinità politica distorce e limita i processi politici e di sicurezza. Il linguaggio di tutte le convenzioni internazionali sulla questione gender può favorire il dibattito sulla cultura dominante: se non produce un risultato diverso per lo scarso impegno di tutti gli stakeholders, è destinato a rimanere un linguaggio formale, vuoto di sostanza; peggio, la sicurezza sarà sempre illusoria.

La conseguenza di questo tipo di approccio è che anche nell’agenda dei paesi uscenti da conflitti i settori militari, di polizia, dei servizi segreti e dell’intelligence continuano ad avere ruolo e forza superiori alla legge, invece di servire la popolazione. Il Security Sector Reform (SSR), fondamentale per la stabilizzazione e la costruzione delle nuove democrazie, deve aiutare la smilitarizzazione di questi contesti. Nel qual caso risulta essenziale il ruolo dei civili, in particolare delle donne, nelle questioni e soluzioni, nella trasformazione delle istituzioni17. E risulta essenziale il gender mainstreaming. L’OECD sostiene in maniera chiara che la sicurezza è un fattore fondamentale nel ridurre la povertà, proteggere i diritti umani, incrementare la stabilità degli stati, consentire l’integrazione di comunità multi-etniche, perché ha a che fare col benessere delle persone e la libertà di una nazione e dei suoi concittadini dalla paura. In rapporto a questi bisogni, i governi devono aumentare le capacità di sicurezza “dall’interno” delle loro società, in modo coerente con i principi democratici e con norme di buona governance, di trasparenza e di legalità18. Ma questo è proprio un invito ad andare aldilà della tradizionale concezione di sicurezza basata meramente su intelligence, difesa e politica. La sfida principale del Security Sector Reform è sviluppare un modello coerente, che riduca i rischi di uno stato debole ed il cui fallimento porterebbe ad incrementare la cultura della violenza e del disordine. Il tentativo di produrre un cambio dal modello di sicurezza stato-centrica e militare ad uno maggiormente incentrato su quella umana ha potenzialità enormi di produrre risultati, perché parla alla società civile ed a tutti i suoi membri. La sfida che l’OECD ha messo in rilievo è che sia necessario arrivare ad una comprensione “condivisa” degli aspetti attinenti i temi della pace e della sicurezza; e su questo deve impegnarsi il settore sicurezza, lavorando con tutti gli stakeholders. L’obiettivo è possibile solo se anche l’analisi gender diventa parte integrante di questo processo.

L’individuazione degli stakeholders è il primo compito, per poter integrare la visione di tutti ed elaborare insieme politiche che non entrino in contraddizione e che non aggravino i problemi. Escludere uno degli attori principali equivale a fallire negli obiettivi di pace sostenibile. Nei piani, elaborati in accordi ufficiali di pace, per i paesi in transizione alla democrazia, il ruolo dei militari è superiore a quello della legge; in questo caso, molto probabilmente, ci sarà una resistenza al cambiamento, all’inclusione; solo marginalmente il discorso gender vedrà un riconoscimento. Considerare parte integrante degli accordi di pace una prospettiva gender faciliterebbe i processi di transizione alla democrazia19.

A questo scopo, il terzo obiettivo posto dalla RSC 1325 riguarda le “best practices”. La valutazione della funzionalità dei modelli rappresenta un punto di forza a favore dell’inclusione, la quale deve sempre avvenire tenendo conto degli aspetti culturali di riferimento. In molti conflitti, le donne sono state attiviste dei movimenti di liberazione nazionale, con competenze e conoscenze facilmente fruibili, in seguito alla pacificazione, dalle istituzioni di sicurezza. In Sudafrica, le donne parlamentari sono state capaci di promuovere partecipazione pubblica nei processi di riforma riguardanti nuove politiche. Hanno saputo lottare per maggiore trasparenza e dibattito pubblico, quando si è trattato di votare su accordi sulle armi20. L’UNIFEM ha sponsorizzato gruppi di donne in Bosnia Erzegovina per la conduzione di training per leaders, rendendo queste unità più efficaci ad implementare la sicurezza all’interno della comunità. Queste esperienze, e decine di altre ancora, costituiscono una ricchezza immensa da utilizzare per favorire un’affermazione del principio che l’inclusività può contribuire a risultati migliori. Evidenziare quanto sia illusorio tentare di costruire pace e sicurezza in un’arena politica, dove si tace la predominanza di una cultura gender egemonica, mascolina, stato – centrica, non è una misura di efficacia operativa. L’inclusività non è un’opzione o uno dei tanti modelli, di quelli definiti “soft”.

La necessità di strategie e di un’agenda comune, che puntino alla capacitazione, sia delle donne che degli uomini, è sicuramente uno degli obiettivi fondamentali. Avere, ad esempio, uomini esperti nel gender porterebbe maggiore credibilità, forza e risorse in questo settore. Lavorare con gli uomini li include nella soluzione del problema, più che considerarli semplicemente causa. Defocalizza l’attenzione dalla prospettiva binaria del gender, cioè maschile/attivo, femminile/passivo21 ed aiutare a studiare le connessioni politiche.

Una progettualità educativa è sicuramente necessaria, ma anche un’attenta attività di monitoraggio, laddove si sperimenta il gender mainstreaming e si lavora sull’inclusione. Lo sviluppo di indicatori validi di riferimento non è un compito facile. A mano a mano che questo processo entra di diritto nell’agenda della sicurezza e della pace, si nota che aldilà della mancanza di fondi o di volontà politica presenti nelle diverse organizzazioni, ciò che più incide è il carente monitoraggio e la scarsa valutazione dei risultati, così come la loro influenza sull’ambiente. C’è bisogno di obiettivi concreti, un quadro di riferimento e indicatori operativi precisi nel gender mainstreaming, che diano risalto a tutto il lavoro che si sta facendo. Il monitoraggiopdf varierà a seconda che si valutino i risultati dal punto di vista del successo nell’integrare le donne nei settori della sicurezza, come nel caso in cui ci siano aumenti nelle quote femminili, livelli salariali comparabili a quelli degli uomini, migliori condizioni di lavoro e di vita, attenzione alle politiche gender, oppure si valutino i dati dei cambiamenti per l’influenza che l’inclusione ha avuto sul sistema nel complesso. L’investimento in questo settore cresce nella misura in cui valutazioni positive dimostrano che risultati ce ne sono e sono suscettibili di ulteriore miglioramento22. La comunità gender si muove nel tracciato aperto dalla Risoluzione 1325, con grande fermento e speranza. Il mandato dell’inclusione delle donne nella politica e nella sicurezza attende ancora piena attuazione.

NOTE:

1 Informazioni reperite al sito www.un-instraw.org alla sezione Gender, Peace and Security aggiornato al 30 Maggio 2007

2 United Nations Security Council Resolution 1325 on Women, Peace and Security adopted on 31 October 2000 reperibile su www.un-instraw.org.

3 OECD Handbook on SSR: Supporting, Security & Justice reperibile al sito www.oecd.org/dac/conflict/ssr.

4 Judy El Bushra, “Conflict and Peace: Women’s Perspectives”, in “Women Building Peace: Sharing Know-How Workshop”, rapporto del seminario del Novembre 2002 tenuto ad Oxford, UK da International Alert su www.internationalalert.org. Il seminario riuniva donne dal Burundi, Uganda, Sudan, DRC, Nigeria, Sierra Leone, Nepal, Sri Lanka, Colombia, Bouganville e Caucaso. Il rapporto si focalizza sulla prospettiva femminile del peace-building e nel dare una prospettiva gender dei conflitti e della pace, pone le donne in rapporto agli uomini ed alla società in generale.

5 Inclusive Security, Sustainable Peace: A Toolkit for Advocacy and Action, in www.internationalalert.org

6 “Securing Equality, Engendering Peace: A Guide to Policy and Planning on Women, Peace and Security (UN SCR 1325) edited by UN-INSTRAW, lead author of the research Kristin Valasek, 2006.

7 Per definizioni autorevoli della terminologia Genere, Uguaglianza di Genere e Gender Mainstreaming vedi Office of the Special Adviser on Gender Issues and Advancement of Women of the UN a

 http://www.un.org./womenwatch/osagi/conceptsandefinitions.htm .

8 Prof. Gerard J. DeGroot, “Wanted: A Few Good Woman – Gender Stereotypes and Their Implications for Peacekeeping” of Prof. DeGroot from St. Andrews University in Scotland al 26th Annual Meeting Women in Uniform in NATO 26-31 Maggio 2002 in www.nato.int ; l’articolo non manca di sottolineare gli evidenti problemi nell’invio di donne in zone di operazioni, in primis perché solo pochissimi stati possono fornire professionalità femminili altamente preparate e sono U.S., Canada ed Europa. Ma c’è da considerare che l’ONU non può permettersi di avere le sue operazioni esclusicamente controllate da militari occidentali. L’autore cita un’interessante campagna di reclutamento condotta dall’esercito britannico che in uno spot, mostrando una donna, dice: “È stata appena violentata dai soldati. Gli stessi che le hanno ucciso il marito. L’ultima cosa che lei vorrà vedere è un altro soldato, a meno che quel soldato non sia una donna”! L’autore si sofferma sulla necessità di mantenere vivi gli stereotipi femminili allo scopo di far si che le donne possano giocare un ruolo differente nelle operazioni militari.

9 Vedi atti del seminario “Gender and Civil-Military Relations: Moving Towards Inclusion?” An essential tool for developing Stability and Reconstruction in post-conflict scenario, condotto il 10-12 Aprile 2006 in Landgoed Huize Bergen (Vught), Netherlands dal Civil-Military Cooperation Centre of Excellence, rintracciabili sul sito www.cimic.coe.org. L’utilizzazione del termine “effectiveness” è favorevole nel campo gender, poiché ad esso gli uomini si relazionano con maggiore facilità. Talaltro è utile quando ci si trova di fronte ad un ambiente in profondo cambiamento. Portare i militari a percepire la terminologia gender come legittimo aspetto del mandato e missione delle operazioni militari aiuterebbe a superare molti ostacoli operativi.

10 Judy El Bushra, ibidem

11 Dr. Patricia Kameri-Mbote, “Gender, Conflict and Regional Security”, ricerca pubblicata dall’International Environmental Law Research Centre, Ginevra 2004 in http://www.ielrc.org.content/a0502.pdf

12 United Nations Development Program, UNDP Report 1994, http://hdr.undp.org/reports/global/1994/en/

13 Vedi Commission on Human Security a http://www.humansecurity.chs.org

14 Sanam Naraghi Anderlini e Judy El-Bushra, The conceptual framework: Security, Peace, Accountability and Rights

15 UNDP, Rapporto 2000 sullo sviluppo umano – I diritti umani, Rosemberg e Sellier

16 Carolm Cohn, Felicity Mill and Sara Ruddick, “The Relevance of Gender for Eliminating Weapons of Mass Destruction, Paper n. 38, adattamento del materiale presentato dagli autori alla Commissione sulle Armi di Distruzione di Massa il 12 June 2005, che ha incorporato idee e commenti nati dai lavori della commissione, su www.wmdcommission.org. Gli autori evidenziano che le armi di distruzione di massa (WMD), tra cui il nucleare, hanno la proprietà di diventare una moneta per stabilire una gerarchia nella potenza regionale. Questo aspetto è poco valutato: prova di questo è che le analisi femministe sono capaci di comprendere tali aspetti emblematici e simbolici del potere, connotandoli non come naturali, ma come fatti sociali, prodotti dalle azioni degli stati. E quando alcuni stati che possiedono armi nucleari si assicurano che altri non le abbiano, la loro esclusione viene percepita come esclusione delle categorie mascoline, come un’evirazione. Aldilà della loro reale utilità come strumenti di guerra, diventano in ultima analisi come arbitri del potere politico/mascolino.

17 Sara Naraghi Anderlini and Camille Campbell Conaway, “Security Sector Reform” in Inclusive Security, Sustainable Peace: A Toolkit For Advocacy and Action, Novembre 2004 from International Alert, Women Waging Peace in www.huntalternatives.org

18 OECD Policy Brief, edito dall’OECD, May 2004 dal sito www.oecd.org

19 Vedi ancora atti del seminario “Gender and Civil-Military Relations: Moving Towards Inclusion?” p.13 dove si evidenzia che riconoscere l’impatto della militarizzazione della società sugli uomini e l’impatto che essa ha su ruoli e relazioni gender, può fornire modalità di decompressione dei conflitti, dando più possibilità agli uomini di trovare alternative alla violenza; inoltre si riconosce che le donne sono stakeholders anche se non partecipano ai processi decisionali e a posizioni di leadership; quindi la loro inclusione nei progetti CIMIC aumenta il numero dei soggetti che si impegneranno nel successo del progetto.

20 Sanam Narghi Anderlini & Camille Pampell Conaway, “Security Sector Reform – Inclusive Security, Sustainable Peace: A Toolkit for Advocacy and Action” at www.internationalalert.org

21 Alain Greg, “Ending Men’s Violence” Working Paper Series n.1 della serie “Political Connection: Men, Gender and Violence”, 2001 edito da United Nations INSTRAW, versione elettronica al sito www.un-instraw.org.

22 Beck Tony, “Using Gender Sensitive Indicators”, 1999 da www.un-instraw.org.

 

 

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