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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfE’ per me un grande onore e piacere presentare quest’opera cosi bene articolata su un tema poco studiato e pure fondamentale. Partiamo dal Vangelo che ci dice: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt. 6,33). Cosi “Non affannatevi dunque per il domani, perche il domani avra già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”. Ecco le parole del Signore che devono illuminare la visione cristiana dell’economia e dell’impresa.

Tali parole quindi non sono una massima di pietà. Sono piuttosto un imperativo etico per i cristiani e una legge della realtà umana. Quando invece noi cerchiamo innanzi tutto il puro bene economico non solo non lo otteniamo ma spesso anche possiamo perdere per aggiunta il regno di Dio.

Queste riflessioni che oggi vi propongo a proposito della presentazione di questo libro vogliono constatare tale fatto. Desiderano cioe mostrare che il Vangelo e la Dottrina sociale della Chiesa, espressa egregiamente da San Tommaso d’Aquino, dai Papi, e degli autori di questo libro, contengono principi essenziali della vita umana e per il bene di essa, che nessuna economia ne impresa puo dimenticare per essere una buona economia e una buona impresa.
Il mondo vive oggi sotto il segno della crisi e della tensione economica, ma l’economia non è il fine ultimo dell’uomo, come se fosse un dio.
L’economia anzi è in funzione dell’uomo che in parte la ha creata come scienza e modo di vita, come pure l’impresa. Quindi ed economia e impresa devono servire l’uomo come a suo fine. Non pero ad un uomo uscito dalla fantasia cervellotica di un filosofo o di un economista, ma l’uomo reale e concreto, creato da Dio a sua immagine. Se si dimentica questa verita della persona umana e del bene comune, dal resto di buon senso, ci esponiamo ad inventare programmi su programmi, imprese su imprese, forse apparentemente meravigliosi ma di conseguenze negative per gli uomini concreti.

E’ quello che molte volte capita con molte concezioni economiche ed impresarie moderne e con non poche teorie di economisti e di impresari, che sembrano costruzioni realmente grandiose. Tuttavia qual’è il loro reale valore se invece di servire sacrificano la collettività umana in favore di una minoranza che poi si scoprono poco seri e disumani? Come bene dice Ferruccio Marzano, citando il documento di partenza, «dobbiamo vedere la responsabilita sociale d’impresa in una prospettiva di filosofia tomista» (p. 79).

L’economia cattolica

Come in parte dice il bell’articolo di D.W. Lutz (pp. 32 ss.), si potrebbe affermare che l’economia cattolica è fondata sulla virtu che San Tommaso con Aristotele chiama liberalità, la quale insegna e regola il buon uso dei beni di questo mondo che ci sono stati dati per il nostro sostentamento2. Come dice S. Agostino, «la virtu consiste nell’usare bene delle cose di cui potremmo usare male»3. Ora, noi possiamo usare bene o male non solo delle cose che sono dentro di noi, come delle potenze e delle passioni dell’anima, ma anche dei beni esterni, cioè delle cose di questo mondo concesse a noi per sostentare la vita. Siccome anche i beni esterni a noi e tutto cio che gli uomini possiedono sulla terra, e su cui esercitano un dominio, è denominato «pecunia». La virtu che regola il giusto mezzo nell’uso dei beni e del denaro che questi rappresenta è chiamata liberalità.

Forse che le ricchezze artificiali e naturali devono essere prodotte e accumulate senza una finalità? Senza dubbio che No. Sono cose destinate al servizio dell’uomo, per l’uso dell’uomo, diciamo la parola: per il consumo dell’essere umano. È chiaro che oggi il problema non e solo di offrirgli una quantità di beni sufficienti, ma e quello di rispondere anche ad una domanda di qualità: qualità delle merci da produrre e da consumare; qualità dei servizi di cui usufruire; qualità dell'ambiente e della vita in generale. Risultano beni e non semplicemente cose nella misura che servono o possono servire all’uomo. Già su questo piano di riflessione è chiaro che il fine dell’economia non puo consistere nel solo accumulo dei beni materiali. Quindi, tutto il processo economico, per esigenza della stessa economia, deve essere orientato verso il consumo. Di qui una doppia mancanza di un’economia puramente capitalista che consuma per la produzione e produce per lucrare. La finanza regola la produzione e la produzione regola il consumo, e cio a qualsiasi prezzo, anche l’inganno a volte (recente caso Madoff, che termino con il processo criminale del suo autore).

E i beni, a quale fine si consumano? Ossia, il processo economico totale, non esclusa l’impresa, a quale fine deve essere orientato? Indubbiamente a soddisfare i bisogni della vita corporale dell’uomo e la sua qualita. E come questa non ha un fine diverso dell’uomo stesso, ma l’integrità della vita corporale è indispensabile per assicurare la vita spirituale dell’essere umano, che culmina nell’atto di amore a Dio, tutta l’economia deve stare al servizio dell’uomo in modo che egli possa servire Dio.

San Tommaso ha esposto nella Summa contra Gentiles il luogo dell’economia in una gerarchia dei valori: «A ben considerare le cose l’ultima felicità dell’uomo consiste nella contemplazione della verità. Infatti, alla perfezione della contemplazione si richiede il benessere del corpo, al quale sono ordinati tutti i prodotti dell’arte necessari alla vita. Si richiede inoltre la pacificazione dei turbamenti delle passioni, alla quale si giunge con le virtu morali e con la prudenza; e l’esclusione dei turbamenti esterni, cui è ordinato tutto il governo della vita civile. Cosicche a ben considerare le cose, tutte le professioni umane sembrano a servizio di coloro che contemplano la verità»4. Quando questi valori superiori mancano, quando manca questa scala di valori, si lascia un vuoto che occupa il denaro nella società e nell’impresa. Pero non il denaro come valido strumento dell’intercambio e dell’accumulazione per il bene comune, ma come usurpatore della cima della scala dei valori. Il denaro come idolo, il biblico «vitello di oro». Benedetto proprio ieri durante l’incontro col clero romano si è richiamato a questa eterna tentazione dell’essere umano, quando parlando delle drammatiche vicende che hanno messo in crisi nelle ultimi anni i grandi sistemi economici ha spiegato, dal: «crollo delle grandi banche americane che mostra quello che e l’errore di fondo: l’avarizia e l’idolatria del denaro che oscurano il vero Dio; ed e sempre la falsificazione di Dio in Mammona che ritorna» (La Repubblica, 27 ii 09, p. 4).

Dunque, l’attività tramite cui l’uomo soddisfa il bisogno di beni materiali in vista del suo perfezionamento integrale si chiama economia. Il comportamento economico è quindi razionale sempre e solo quando asseconda gli orientamenti essenziali dell’uomo. Dunque l’economia o attivita economica puo definirsi come la totalita di quelle azioni tramite cui l’uomo utilizza i beni materiali per soddisfare i suoi bisogni vitali in ordine ai culturali, e infine, in ordine alla verita e al bene della libertà.

L’economia, un’etica

Da quanto detto risulta che l’economia è un’etica o meglio è quella parte dell’etica che ha per oggetto specifico il procurare i beni materiali utili e piacevoli all’essere umano. Quindi l’economia fa capo alla parte della saggezza pratica o della prudenza, come insegna San Tommaso5, che ha per oggetto il retto ordine delle azioni umane finalizzate a procurare il sostentamento proprio o della famiglia, della nazione, della società.

Ora, come nella situazione teologica della legge della grazia in cui viviamo, non si puo dare virtu perfetta, secondo quanto insegna l’Angelico, senza l’ordinazione di tutto a Dio, amato sopra ogni cosa, è necessario che la prudenza o saggezza pratica, e con questa l’economia, non esclusa neanche l’impresa, si subordino alla carità che e la piu eccelsa di tutte le virtu senza cui non puo darsi compiuta virtu6.

Da quanto detto risulta che «le leggi economiche non sono leggi puramente fisiche come quelle della meccanica o della chimica, se non leggi dell’azione morale, che implicano valori morali. La giustizia, la liberalità, il retto amore al prossimo formano parte essenziale della realtà economica. L’oppressione ai poveri e la ricchezza presa come un fine in sé non sono soltanto proibite dalla morale individuale, ma anche sono azioni economicamente cattive, che vanno contro il fine stesso dell’economia, dato che questo fine è un fine umano»7. Partendo da analoga convinzione e cioè che la molla dell’operare economico non sia solo quella che prevale nel periodo rinascimentale e moderno del profitto o lucro e che il problema di fondo della società postindustriale non sia solo quello della scelta dei mezzi piu adatti a conseguire un determinato scopo, ma anche quello della scelta tra fini alternativi (ossia fra idealita e valori divergenti), una schiera di studiosi contemporanei, fra i quali spiccano il filosofo economista A. K. Sen e il premio Nobel J. Stiglitz, Ferruccio Marzano ed altri autori di questo importante libro, insistono oggi sulla necessita di una riconsiderazione etica dell’economia, e dell’impresa, volta a responsabilizzare i cultori di tale disciplina nei confronti della globalita dei problemi umani in un orizzonte che miri all’uomo concreto. Mi piace Compagnoni quando afferma: «Bisogna dire che dal punto di vista della prassi etica, il tipo di fondazione etica delle singole norme non gioca un ruolo immediatamente rilevante, in quanto le norme da un punto di vista genetico sono frutto di intuizione esistenziale, ma il tipo di etica adottato, implicitamente ed esplicitamente, è decisivo per il quadro antropologico nel quale pretendono rilevanza i valori che si intendono realizzare nella vita economica» (p. 6). Già John Stuart Mill, per evitare la riduzione della complessità antropologica al solo elemento economico, aveva asserito che «non e buon economista chi e solo economista».

Di conseguenza la giustificazione degli elementi e valori economici bisogna cercarla nelle esigenze dell’azione umana. Percio e la moralita, ossia la moralità intrinseca dell’economia, la condizione dei suoi effetti benefici per l’essere umano.

L’uso comune dei beni o della “destinazione universale dei beni”

L’uomo viene al mondo e si trova di fronte ad un’infinità di beni esterni, che tuttavia non sono inesauribili. La terra con questa “bella d’erbe famiglia e di animali”. Gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie degli oceani. Per chi e perche sono questi beni? “Tutto hai posto sotto i suoi piedi”, risponde il Salmista8. Cosi tutto è al servizio dell’uomo; tutto è offerto affinche l’uomo possa usare, ossia mangiare, vestirsi, formare la sua abitazione, costruire la sua Città, e godere di un umano piacere nella vita di famiglia e nella società.

Orbene, tutto è per l’essere umano. Ma per quale uomo? Per quelli di una determinata razza, di una nazione, di una città, di una condizione sociale, di un continente, di una parte del mondo? Naturalmente, no. Tutti, quindi anche il piu umile degli esseri umani ha il diritto di usare (e dico usare e non precisamente possedere) quello di cui ha bisogno per una vita umana degna, sia per sé sia per la sua famiglia. Nessuno puo essere estromesso o escluso. Cosi un sistema economico che non assicura perfettamente a tutte le famiglie il necessario per una sussistenza umana, sarebbe un regime ingiusto. Percio San Tommaso, seguendo Aristotele, giunge alla conclusione che i beni esteriori sono stati affidati in uso all’uomo in quanto essere dotato di ragione. Infatti egli afferma: “L’altra facolta che ha l’uomo sulle cose esterne è il loro uso. Ora, da questo lato l’uomo non deve considerare le cose come esclusivamente proprie, ma come comuni, in modo cioe da metterle facilmente a disposizione nelle altrui necessita”9. L’articolo e stato interpretato perfino nel senso che la proprietà privata verrebbe intesa come un diritto fondamentale supremo, naturale, personale e da riconoscere a ogni singolo, e si e creduto di trovarvi una prima formulazione dell’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU, che riconosce ad ogni uomo il diritto alla proprietà.

Tommaso certamente ha un punto di partenza universalistico, cosmico, secondo il quale uomo e natura vengono riconosciuti come reciprocamente connessi. Da qui ci si interroga in quale rapporto l’uomo stia con la natura che lo circonda, quindi quale potere sulla natura è stato assegnato all’uomo dal Creatore? Tommaso risponde che l’uomo e stato prescelto come signore del mondo in base alla sua natura razionale, affinche egli li utilizzi per i fini corrispondenti alla sua natura. Cosi egli dice: “Dio ha il dominio principale di tutte le cose. Ed egli secondo la sua provvidenza ordino alcune cose al sostentamento corporale dell’uomo. E per questo l’uomo ha un dominio naturale sulle cose quanto alla potestà di usarne”10. Cosi San Tommaso rende giustizia all’istanza fondamentale della tradizione cristiana, secondo la quale i beni materiali devono stare a disposizione dell’uomo, dell’intera umanità, ossia come dice il Magistero attuale della Chiesa, i beni hanno una destinazione universale. Ed è cosi almeno in potenza.

La ragione è chiara. Ogni uomo ha diritto a vivere in famiglia, quindi ha diritto ai mezzi che gli assicurino una sussistenza umana familiare. Ora, come tutti questi mezzi sono beni esteriori, ogni uomo ha diritto a beni che gli assicurino la sua sussistenza e quella della sua famiglia. Si noti bene che qui si parla del minimum di quello che un essere umano deve usare. Tale minimum è la sussistenza umana della famiglia; umana si dice, quindi, qualcosa in piu di quello che è necessario per mangiare e vestire. Si tratta di certo benessere umano permanente. Egli potra essere povero, cioè non disporre di ricchezze superflue, pero mai dovra essere miserevole. Dio non vuole la miseria di nessuno. Quindi un sistema che pone l’uomo nella miseria e un sistema ingiusto, non benedetto dall’Altissimo.

Percio la Chiesa ha condannato il marxismo e il capitalismo selvaggio. Ambedue in virtu della sua essenza, pongono l’uomo permanentemente nello stato di miseria. Il capitalismo perche concentra la proprieta e l’uso dei beni nelle mani di alcuni pochi fortunati e miliardari e lascia i piu condannati a vivere (dico morire) di un salario precario ed eventuale. Il socialismo marxista perche analogamente concentra la proprieta nelle mani dello Stato, cosicche la moltitudine si vedra frequentemente privata del suo uso.

Percio San Tommaso, nella stessa questione che stabilisce l’uso comune dei beni esterni, afferma e dimostra la necessità della proprietà privata. Cosi domandandosi “se sia lecito a qualcuno (aliquis) possedere qualcosa come proprio”, risponde nel seguente modo. “Due sono le facoltà dell’uomo rispetto ai beni esterni. La prima e la facoltà di procurarli e di amministrarli. E da questo lato è lecito all’uomo possedere dei beni propri. Anzi, cio è anche necessario alla vita umana, per tre motivi. Primo, perche ciascuno è piu sollecito nel procurare cio che appartiene a lui esclusivamente che non quanto appartiene a tutti, o a piu persone: poiche ognuno, per sfuggire la fatica, tende a lasciare ad altri quanto spetta al bene comune; come capita la dove ci sono molti servitori. – Secondo, perche le cose umane si svolgono con piu ordine se ciascuno ha il compito di provvedere a una certa cosa mediante la propria cura personale, mentre ci sarebbe disordine se tutti indistintamente provvedessero a ogni singola cosa. – Terzo, perche cosi è piu garantita la pace tra gli uomini, accontentandosi ciascuno delle sue cose. Infatti vediamo che tra coloro che possiedono qualcosa in comune spesso nascono contese. L’altra facoltà che ha l’uomo sulle cose esterne e il loro uso. Ora, da questo lato l’uomo non deve considerare le cose come esclusivamente proprie, ma come comuni: in modo cioè da metterle facilmente a disposizione nelle altrui necessità. Di qui il comando dell’Apostolo (1 Tm 6, 17 s.): ‘Ai ricchi di questo mondo raccomanda di fare del bene, di essere pronti a dare’”11.

La proprietà privata

Come viene spiegato piu volte nel libro, per risolvere il problema Tommaso traccia una distinzione tra “procurarsi” e “amministrare” da una parte e “usare” dall’altra. Rispetto al primo membro (acquisto, amministrazione o disposizione) egli vede la necessita pratica dell’ordinamento privato. In primo luogo come sprone alla diligenza, dunque per innalzare la produttività del lavoro. In secondo luogo per mantenere un’amministrazione migliore e senza confusione, cioè per assicurare la produttivita del capitale e individuare la persona responsabile. In terzo luogo, per produrre la pace sociale, poiche i dissidi vengono evitati dai vincoli legislativi. Come si vede Tommaso è vicino alla dottrina di Aristotele sulla proprietà notevolmente differente alla platonica comunione dei beni che per lo Stagira non corrisponde al comportamento dell’uomo, per il qual motivo essa puo sorgere solo in base a una costrizione legale12.

Dal punto di vista del secondo membro della distinzione (uso), tutti i beni, anche quelli che si trovano in mani private, mantengono in potenza la loro destinazione originaria universale, cioe di dovere servire tutti gli uomini.

Tuttavia questa destinazione universale non cancella pero affatto secondo Tommaso il diritto a disporre che ha il proprietario. Di cio che qualcuno possiede legittimamente come proprio ne mantiene il diritto: «Egli puo usare il suo possesso come vuole»13. Al proprietario è imposto soltanto il grave obbligo di aiutare il bisognoso, chiunque egli sia: “Le cose che uno ha in sovrabbondanza sono dovute per diritto naturale al sostentamento dei poveri”14. Questo dovere rimanda all’universale destinazione dei beni terrestri. L’obbligazione è tanto piu grave quanto piu l’altro è caduto in stato di bisogno15. Non esiste comunque una regola universale che stabilisca come debba essere valutato il bisogno altrui, ma il giudizio al riguardo e affidato alla saggezza pratica o prudenza che è la virtu fondamentale dell’economia16. Infatti, siccome sono molte le persone in necessità, e non è possibile soccorrere tutti con una medesima fortuna personale, è lasciata all’arbitrio di ognuno l’amministrazione dei propri beni, per soccorrere con essi chi è in necessità. Tuttavia “se la necessità è tanto urgente ed evidente da esigere il soccorso immediato con le cose che si hanno a portata di mano, come quando una persona versa in un pericolo tale da non poter essere soccorsa diversamente, allora uno puo soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta sia occulta, della roba altrui. E cio non ha propriamente natura di furto o di rapina”17, “perche a causa di tale necessita cio che uno prende per il sostentamento della propria vita diventa suo”18. “Nella necessità tutte le cose sono comuni”19. In questo caso dunque il proprietario perde il suo diritto a quei beni dei quali egli e debitore per dovere morale al prossimo che si trova in stato di estremo bisogno. Questi principi tomisti oggi vengono formulati, come ben dice Marzano, nell’ambito globale, come il principio dell’Opzione preferenziale per i poveri e i deboli (p. 89). Qualcosa di analogo afferma Rawls con la regola del maximin (abbreviazione del maximum minimimorum).

Giustificazione morale del capitale

Non ho trovato nel libro che presentiamo un tema di fondo come e quello della giustificazione morale del capitale. Si potrebbe dire che il capitale viene giustificato in una visione cattolica dell’economia come esercizio di una virtu cristiana che San Tommaso chiama la magnificenza. Se ricordiamo bene per San Tommaso la proprieta privata ha una funzione sociale, una destinazione comune dei beni cioe uso comune che dice l’Angelico. In virtu di questa destinazione comune dei beni «le cose che uno ha in sovrappiu, per diritto naturale devono servire al sostentamento dei poveri. Per cui S. Ambrogio afferma ‘Il pane che tu hai messo da parte e degli affamati; le vesti che hai riposto sono degli ignudi; il danaro che nascondi sotto terra e il riscatto dei miserabili’»20.

Sara quindi necessario lasciare il superfluo ossia quello che ci avanza una volta soddisfatti i bisogni e la dignità della propria condizione, e donarlo ai poveri? Non e questo precisamente necessario. Ecco il punto: si potrà investire questo denaro in imprese che proporzionino lavoro e pane ai bisognosi.

E’ questa la dottrina che il Papa Pio XI insegna nella sua grande Enciclica sociale quando afferma: «L'impiegare pero piu copiosi proventi in opere che diano piu larga opportunita di lavoro, purche tale lavoro sia per procurare beni veramente utili, dai principi dell'Angelico Dottore (cfr. S. Thom., Summ. Theol., II-II, q. 134) si puo dedurre che non solo cio è immune da ogni vizio o morale imperfezione, ma deve ritenersi per opera cospicua della virtu della magnificenza, in tutto corrispondente alle necessità dei tempi»21.

La virtu della magnificenza come spiega il Santo Dottore, ordina il retto uso delle grandi somme di denaro, cosi come la liberalita ordina in generale l’uso del denaro, benche sia poco. Si noti che peccherebbe di avarizia colui il quale accumulasse il denaro superfluo e lo sottraesse all’uso comune. Da dove risulta che il concetto economico di capitale che poi e la base dell’impresa, è giustificato dall’esercizio della virtu cristiana della magnificenza.

Cosa è infatti il capitale? E’ una riserva di prestazioni utili e sovrappiu sottratta all’uso immediato dei bisogni (dei poveri) per ottenere piu utilita per coprire ulteriormente tali bisogni. Oppure detto in altro modo, il capitale è l’attuazione di mezzi di produzione prodotti per ottenere utili, mentre gli investimenti sono capitale potenziale, che potrebbe rimanere morto. E’ quindi ricchezza accumulata che si investe in un’impresa per la produzione di altra ricchezza, e cosi si beneficia la comunita. Il capitale come tale cerca innanzi tutto di beneficiare la comunita, i poveri, perche è l’inversione di quello che è superfluo che per diritto naturale si deve al sostentamento dei poveri. E’ quindi il sostentamento dei poveri che da un senso etico al capitale e l’impresa. L’uomo cosi puo e deve riconoscere un compito etico nella formazione e attuazione del capitale. Nel fare cio egli ha il dovere di valutare in ogni situazione quali prestazioni utili debba e possa rivendicare, e cio anche e soprattutto rispetto ai fattori di produzione e lavoro.

Il lavoro

Orbene, chi crea le ricchezze materiali nuove, chi ingrandisce la torta? Naturalmente, il lavoro dell’uomo sulle relativamente scarse o limitate risorse della natura. L’iniziativa di un impresario che con la sua intelligenza e la sua volontà perseverante, la sua saggezza o ragione pratica, risolvera il modo piu efficace e veloce di produrre un certo tipo di beni o servizi. Anche collabora in quest’opera il lavoro degli operai o dei dipendenti, gli stakeholder, laboratori o azionisti, che in subordinazione all’orientamento dell’impresario produrra la nuova ricchezza. Quindi la produzione della ricchezza e un effetto proprio del lavoro. Il capitale investito nei mezzi di produzione (macchine, immobili, ecc.) e uno strumento potenziale, che sarebbe morto, senza l’effettiva attivazione per il lavoro. Il lavoro è cosi superiore al capitale come la causa principale è superiore allo strumento o per parlare in termini aristotelici come l’atto è superiore alla potenza. Nella confezione di un libro l’attivita dell’Autore è primaria e superiore a quella del computer e della stampante. Il capitale quindi ha certamente i suoi diritti ma i suoi diritti sono posteriori ai diritti del lavoro. Il capitale dovrebbe alimentare il lavoro e non il lavoro al capitale. Questo èl’insegnamento di San Tommaso quando dice: «chi consegna il proprio denaro ad un mercante o a un artigiano facendo societa con essi, non cede loro il dominio, ma il danaro rimane di sua proprieta: per cui e a suo rischio l’uso che ne fa il mercante o l’artigiano. Quindi egli puo pretendere parte del guadagno, essendo qualcosa che gli appartiene»22. Di qua segue un primo corollario, contro la dottrina marxista, che il capitale ha diritto ad una parte del beneficio, quindi che il beneficio di per se non è un’usurpazione al lavoro dell’operaio o dell’impresario come ne pretendeva la teoria troppo semplicista del plusvalore. Si segue, dall’altra parte, un secondo corollario contro l’ingiustizia flagrante del capitalismo selvaggio, che i diritti del capitale sono posteriori ai diritti del lavoro. Il capitalismo ha la tendenza ad invertire i diritti del lavoro e del capitale, soffocando quello nelle grinfie avare di questo23. Forse la risoluzione piu chiara di questa dialettica è quella che presenta H. Alford sull’approccio personalista come fondamento etico piu solido che l’idea del semplice individuo (pp. 220 ss.).

L’impresa

Il lavoro è primo e il capitale viene dopo. Ambedue si associano nell’impresa. Pero c’è il lavoro dell’impresario e c’è anche il lavoro dell’operaio o dipendente. Il primo è lavoro della saggezza pratica, dell’abito della prudenza che mette insieme intelligenza e volonta. L’impresario quindi rischia.

Quale contrappeso equilibrera i rischi dell’impresario? Il capitale anche rischia, l’azionista anche rischia, che contrappeso le equilibrera? Invece il dipendente non rischia. Come la sua condizione di uomo senza capitale non gli permette di aspettare il beneficio dell’impresa per vivere di questi dividendi, per di piu problematici, deve lavorare per un compenso quotidiano che gli assicuri la sua sussistenza e quella della sua famiglia, come diremo parlando del salario. Di qua che in rigore di giustizia al dipendente in generale non corrisponda la partecipazione nel guadagno.

Il beneficio dell’impresa

In primo luogo ci possiamo domandare, l’impresa ossia quell’associazione di lavoro e capitale, si deve proporre il guadagno? La risposta è si, perche tanto il capitale quanto il lavoro rischiano risorse proprie, che devono avere una giusta ricompensa. Se non ci fosse l’attesa del guadagno, chi arrischierebbe i suoi beni? Chi si avventurerebbe in imprese di questo genere?

Il rischio giustifica il guadagno come lo ha visto San Tommaso, che considera giusto il beneficio di un denaro investito in un’impresa, mentre dichiara ingiusto l’interesse per il denaro prestato.

Per apprezzare il valore di questa spiegazione e la si possa intendere, trascriviamo qui integralmente innanzi tutto la difficolta che San Tommaso si formula quando domanda se sia lecito esigere qualche utilita per il denaro prestato. Propone il Santo questo difficolta: «Aliena maggiormente il danaro che ne trasferisce il dominio col prestito che non colui il quale lo affida a un mercante o a un artigiano. Eppure percepire un guadagno dal danaro affidato a un mercante o a un artigiano e cosa lecita. Quindi e lecito anche percepire un guadagno dal danaro prestato»24.

La risposta di Tommaso è la seguente. «Chi presta il danaro cede il dominio di esso a chi lo riceve. Per cui costui lo detiene a suo rischio, ed è tenuto a restituirlo integralmente. Quindi il mutuante non deve esigere di piu. Invece chi consegna il proprio denaro ad un mercante o a un artigiano facendo societa con essi, non cede loro il dominio, ma il danaro rimane di sua proprietà: per cui è a suo rischio l’uso che ne fa il mercante o l’artigiano. Quindi egli puo pretendere parte del guadagno, essendo qualcosa che gli appartiene»25. Cosi il rischio giustifica il guadagno giusto. Tuttavia, tale guadagno puo essere il movente primo dell’impresa?

Il profitto non deve essere il movente primo dell’impresa

Tommaso d’Aquino ha trattato il problema della valutazione etica del profitto e del desiderio di esso discutendo la domanda se nel commercio il prezzo di vendita possa esser piu alto del prezzo di produzione. Egli parla in quest’occasione di due generi di scambio. Il primo è lo scambio da merce a merce per le necessita vitali: qui ognuno pensa alla crescita di qualita della vita (sostentamento) per se o per la sua famiglia, e sceglie quella merce che gli serva di piu di quella che da nello scambio. Cosi, afferma Tommaso, non sorge alcun profitto nel senso del commercio. Il Santo trova dunque del tutto normale che le merci scambiate non siano di pari valore. Le cose sono diverse nel commercio: qui il profitto non ha niente a che fare con il senso della vita. Benche il guadagno come tale non sia moralmente né buono né cattivo, tuttavia in questo caso esso è al servizio di un desiderio di possesso senza limiti: da questo punto di vista il desiderio di guadagno è da condannare. Ma con cio non e detto che il guadagno sia condannabile come tale: se viene perseguito uno scopo onesto, sia esso il sostentamento della famiglia (ad domus suae sustentationem) o l’aiuto dei poveri (ad subveniendum indigentibus) o il progresso della comunita statale (propter publicam utilitatem), allora il profitto non sarebbe il vero e proprio scopo. Potrebbe piuttosto essere concepito come una ricompensa per il lavoro (premium sui laboris).

Da questa dottrina dell’Angelico si deduce che il guadagno non puo essere il movente di un’impresa capitalista. Si deve attendere il profitto perché si rischia un capitale. Pero non si deve cercare il guadagno per il puro guadagno. Bisogna che ci siano moventi onesti che giustifichino l’investimento di denaro in un’impresa come per esempio il beneficiare la collettivita con una nuova produzione utile, o il dare lavoro ai disoccupati, o pure un sostentamento conveniente dei padroni e dei dipendenti. Quante applicazioni pratiche si potrebbero fare di questa dottrina, che è la dottrina cattolica dell’economia! Proprio l’idea che il profitto puo e deve servire alla comunita statale (o nella nostra situazione anche all’economia globale), e la giustificazione etica del profitto incassato individualmente ma non cercato in quanto tale. Come dice nel libro Shcheribinina (p. 68) e Marzano (p. 85) ispirandosi al grande J. Schumpeter, l’imprenditore, il pioniere creativo di progresso, sta al servizio della comunità globale, e ha bisogno del profitto per potersi porre questo fine pero non deve cercare il profitto per il puro profitto. Naturalmente egli cerca il profitto per la sua impresa, ma esso non va qualificato come desiderio egoistico in quanto non lo cerca come fine ma come stipendio del lavoro cioe l’intende come riscontro alla prestazione e responsabilità individuale (lucrum licitum est, non quasi finem, sed quasi stipendium laboris). Cosi come neanche la legittimazione etica dell’economia di mercato prende le mosse da un concetto egoistico di interesse individuale, ma lo intende sempre come compenso ai servizi, rischi e responsabilità personali (cioe sia detto contro l’opinione dei sostenitori liberali dell’economia di mercato, la cui giustificazione dell’interesse individuale e insieme anche la giustificazione dell’egoismo e del lucro per il lucro). Il desiderio di profitto dell’imprenditore non deve essere, compreso in tutta la sua ampiezza, semplicemente come il desiderio di trarre profitto: esso si deve trovare al contrario su un terreno etico ben fondato a causa del servizio che deve rendere alla comunita globale. Cosi si, il capitale recupererebbe la sua funzione propria di diffondere i beni nella comunità, e non invece, come oggi succede in un’economia improntata al puro lucro, che li succhia dalla comunità per accumularli in mani di una minoranza che esclusivamente li gode e anche alle volte le distrugge!26

La distribuzione del profitto d’impresa

Come ripartire il profitto? In un’economia in cui la proprietà privata ha un senso ordinatore, parlando in senso di giustizia commutativa, il profitto appartiene di sua natura al proprietario dell’impresa, naturalmente una volta che siano stati soddisfatti tutti gli obblighi con i dipendenti e i vari consumatori. Avendo il successo dell’impresa come concausa anche i lavoratori, nel caso in cui la retribuzione concordata non corrisponda alla prestazione effettiva puo essere indicata una partecipazione al profitto.

Nel libro c’è un capitolo molto importante sull’effetto della responsabilita sociale sulla produttivita e sull’efficienza delle imprese, che conclude identificando la presenza di un effetto “trasferimento di ricchezza”. Si osserva che i lavoratori producono “torte piu grandi”, ma una piccola fetta va agli azionisti (p. 336).

Conclusione

Vogliamo concludere con la prima lettera di San Paolo al suo amato discepolo Timoteo: “Certo, la pietà è un grande guadagno, congiunta pero a moderazione! Infatti non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori”. A molti questo testo puo parere di valore ascetico e non economico, anzi puo sembrare distruttore dell’economia stessa. Tuttavia non è cosi. E’ un testo eminentemente economico, tanto piu di un’economia cristiana. Perche precisamente l’ultimo versetto letto ci spiega il carattere antieconomico di una pretesa economia regolata dall’avarizia: “apparta l’essere umano dalla fede”, cioe della vita cristiana, e lo sommerge in corpo e anima nelle preoccupazioni puramente economiche (primo errore)27. Inoltre, “lo tormenta con molti dolori”, perche non gli somministra il bene economico, al contrario lo schiavizza, come lo dimostra il capitalismo selvaggio o la crisi economica dei nostri giorni (secondo errore).

Lo stesso benessere dell’economia e dell’impresa quindi esige, nella misura del possibile, l’espulsione del lucro per il lucro, e un movimento che freni e regoli tutte quelle attività che per la loro propria inclinazione tendono al lucro, come particolarmente sono le finanze di cui non abbiamo voluto aprire un capitolo28.

A qualcuno non sembrerà cosa esorbitante questa carriera dell’economia alla stregua del desiderio infinito di lucro delle finanze. Che importa, dira, che sia trascinata dal lucro quando in fondo l’economia cosi è bene assicurata? Che importa, dira soprattutto, se mai come adesso nella storia abbiamo un’abbondanza cosi immensa? Forse, puo essere, dira, che questo implichi un capovolgimento morale, pero, economicamente, e un traguardo mai prima cosi raggiunto dall’umanita. L’economia moderna e semplicemente grandiosa! Ma la crisi ci dimostra il contrario anche quando non tutti lo vogliano accettare.

Noto è che la dottrina della Chiesa non ammette questo divorzio di valori. Non si puo dare un’economia o un’impresa veramente economica o veramente impresa che non rispetti la gerarchia dei valori umani. Ci potra sembrare grandiosa, ma se è immorale, porta nella sua radice una forza di distruzione che puo annientare l’uomo e l’economia stessa. Se è immorale è anche antieconomica. La crisi attuale ci deve fare pensare e reagire con una rinnovata virtu, particolarmente della liberalità, della magnificenza, della solidarietà, della sussidiarietà, infine, della partecipazione piu o meno attiva29.

Percio, a differenza di certi scrittori pagani che giustificavano il lucro ed esaltavano il gran commercio, come fanno anche oggi certi economisti, giudicando la piccola industria e il lavoro come indigni di uomini liberi, i Padri della Chiesa sulla scia di Paolo hanno iniziato a riabilitare il lavoro a cominciare da quello manuale. Il grande intellettuale africano latino, Sant’Agostino, scrive che, se i lavori spirituali non gli prendessero tanto tempo, egli vorrebbe imitare San Paolo (che lavorava in costruire tende), esercitando «un lavoro tanto innocente come onesto, relativo agli oggetti di uso quotidiano, come quelli che escono dalle mani dei fabbri e dei calzolai, o come i lavori del campo»30. I Padri benedettini hanno civilizzato Europa con il loro motto «ora et labora», che si riferiva principalmente al lavoro manuale. Oggi sembra una barzelletta ricordare che il capitalismo, inclusa l’impresa, nasce come un movimento religioso. Questa tuttavia è la tesi quasi universalmente accettata del sociologo tedesco Max Weber nel suo celebre libro La etica protestante e lo spirito del capitalismo. Amintore Fanfani sosteneva invece che il capitalismo era figlio del cattolicesimo come lo provano il capitale concentrato nei monasteri benedettini e il fatto che la prima banca era nata a Siena o Firenze. Nato che sia dal protestantesimo o dal cattolicesimo quello che oggi vediamo con la voragine dei mercati, non è che stiamo assistendo alla fine del capitalismo o dell’impresa come tale, ma alla dimenticanza delle sue basi morali e valoriali che certamente hanno una radice religiosa. Il rispetto alla parola impegnata, la santita dei contratti, il valore del risparmio a fronte della spesa inutile, la rinuncia al guadagno facile invece dello sforzo e del lavoro, questo imperativo morale che coltivarono i nostri nonni in tempi duri, questo è cio che oggi corre pericolo e siamo chiamati a cambiare. Il cristianesimo quindi ha operato qui una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall'intero contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Colui il quale, essendo Dio, e divenuto simile a noi in tutto, dedico la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il piu eloquente “Vangelo del lavoro”, che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il capitale che produce, ma il fatto che colui che lo esegue e una persona creata da Dio e ricreata nella grazia di Cristo almeno potenzialmente31. Giovanni Paolo II concludendo la sua grande Enciclica sul lavoro dice “Il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia qualepdf posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo”32. Possiamo dire che la visione cattolica dell’economia si incentra in questo cioè che il lavoro vissuto nella carita e preghiera, secondo le virtu della liberalita e magnificenza, non solo realizza il progresso economico, ma soprattutto e meritorio della grazia soprannaturale per chi lo fa ed e anche comunicativo della grazia per gli altri che non pongono ostacolo. Quindi cosi fa crescere e l’economia terrestre e l’economia celeste. Salutiamo come benemerita l’opera che qui presentiamo e che ci ricorda nel miglior modo questi ideali per l’impresa di oggi.

NOTE:

1 Contributo alla presentazione del volume "Fondare la responsabilità sociale d'impresa" (H. Alford e F. Compagnoni, cur.) avvenuta il 27 febbraio 2009 all'Angelicum di Roma.
2 S.Th. II-II, 117. Aristotele se ne occupa nell'Etica Nicomachea (1119b). Per San Tommaso la "liberalita non consiste nello sperperare le ricchezze, cosi da non riservarsi quanto occorre per il proprio sostentamento e per compiere gli atti di virtu, che occorrono al raggiugimento delle felicita.(Ib., 1)". Essa e una via di mezzo tra la prodigalita (eccesso) e l’avarizia (difetto). Consiste appunto in questo: “tirar fuori il danaro per darlo agli altri” (Ib., 4).
3 De lib. Arb. 2, 19.
4 Summa contra Gentiles, III, 37.
5 S. Th., II-II, 51,3.
6 “Nessuna virtu impera universalmente sopra le altre virtu tranne la carita, che e la madre di tutte le virtu; cio e dovuto al suo oggetto proprio, il sommo bene”(II Sent., 38, 1, 2 ad 5). E’ in buona sostanza anche la tesi di Deus caritas est di Benedetto XVI, che percepisce il rischio moderno di separare la ragione dalla fede, la giustizia della carita: «per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perche il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, e un pericolo mai totalmente eliminabile». In effetti, non possiamo eludere di valutare il nostro senso di giustizia alla luce della fede: «Partendo dalla prospettiva di Dio, [la fede] libera [la ragione] dai suoi accecamenti e percio l’aiuta ad essere meglio se stessa». Tale compito critico della fede, libera la ragione dai suoi limiti: «La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio cio che le e proprio». Non solo la dimensione storica del significato di giustizia – fondato sia sulla tradizione ebraica che su quella cristiana e sull’eredita greca e romana – ma anche il suo significato attuale, derivano dalla costante purificazione che la fede apporta alla ragione: «E qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa». Per concludere, anche qui il Papa Benedetto XVI attribuisce al Cristiano un compito fondamentale e sottolinea che lo scopo della dottrina sociale della Chiesa «Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far si che cio che e giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato» (n. 28a). Naturalmente per questo ci vuole la fede formata dalla carita, madre e regina di tutte le virtu.
7 J. Maritain, Religione et Culture, Paris, p. 46.
8 Salmo 8,7
9 S.Th., II-II, 66, 1.
10 Ib. ad 1
11 S.Th., II-II, 66, 2.
12 Polit. II, 5, 1263b 39-1264 a 1.
13  Questi quodlib., 6, 12.
14 S.Th., II-II, 62, 7.
15 Quaest quodlib., 6, 12 ad 1.
16 Ib., ad 2.
17 S.Th., II-II, 66, 7.
18 Ib., ad 2.
19 Ib., sed contra
20 Ib., 7.Per San Ambrogio, Decreto, a. 2, ob. 3. Nello stesso senso, San Tommaso cita l’Omelia su Luca (XII, 18) di S. Basilio: “E’ il pane dell’affamato che tu trattieni; la tunica di chi e nudo che conservi, il denaro dell’indigente che tu possiede; percio fai tanti torti, quanti potresti dare” (De Malo, 13, 2 ad 4).
21 Pio XI, Quadragesimo anno, §51.
22 S.Th., II-II, 78,2 ad 5.
23 Giovanni Paolo II ha ribadito il concetto in nostri giorni: “Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro e sempre una causa efficiente primaria, mentre il «capitale», essendo l'insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio e verita evidente che risulta da tutta l'esperienza storica dell'uomo” (Laborem exercens, § 12).
24 Ib., II-II. 78, 2 dif. 5.
25 Ib., ad 5.
26 Giovanni Paolo II si esprime cosi sul profitto: “La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell'azienda: quando un'azienda produce profitto, cio significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia, il profitto non e l'unico indice delle condizioni dell'azienda. E possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio piu prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignita. Oltre ad essere moralmente inammissibile, cio non puo non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo dell'impresa, infatti, non e semplicemente la produzione del profitto, bensi l'esistenza stessa dell'impresa come comunita di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera societa. Il profitto e un regolatore della vita dell'azienda, ma non e l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa” (Centesimus annus, n° 35).
27 “L’avarizia rende l’anima che ha corrotto cosi pesante che non puo essere innalzata a desiderare i beni eccelsi” (Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, 14, 53). San Tommaso spiega in un modo molto convincente, come tutta la sua Etica, che tiene conto dei bisogni e dei desideri della condizione umana e terrena, che “l’avarizia si dice inguaribile a causa della condizione del soggetto, poiche la vita umana e continuamente esposta alla mancanza; ma ogni mancanza spinge all’avarizia: per questo, infatti, si ricercano i beni temporali, affinche sia portato rimedio alla mancanza della vita presente” (De Malo, 13, 2 ad 8).
28 Anche il Catechismo della Chiesa cattolica riafferma la necessita di una retta re-impostazione dell’economia mondiale e delle istituzioni della finanza, e cosi si esprime: “L’aiuto diretto costituisce una risposta adeguata a necessita immediata, eccezionali, causate per esempio da catastrofi naturali, da epidemie ecc. Ma esso non basta a risanare i gravi mali che derivano da situazioni di miseria, ne a far fronte in modo duraturo ai bisogni. Occorre anche riformare le istituzioni economiche e finanziari internazionali perche possano promuovere rapporti equi con i paesi meno sviluppati. E’ necessario sostenere lo sforzo dei paesi poveri che sono alla ricerca del loro sviluppo e della loro liberazione” (n° 2440).
29 Come dice Giovanni Paolo II nella sua ultima Enciclica sociale: “Occorre che le Nazioni piu forti sappiano offrire a quelle piu deboli occasioni di inserimento nella vita internazionale, e che quelle piu deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari, assicurando la stabilita del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la crescita delle capacita dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro responsabilita” (Centesimus annus, n° 35).
30 Città di Dio, lib. 33, cap. 4.
31 Il Concilio Vaticano II afferma che per creare una sana economia e necessario il primato assoluto della persona: “Il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti, ne nella sola ricerca del profitto o del predominio economico, bensi nel servizio dell’uomo: dell’uomo integralmente considerato, tenendo cioe conto della gerarchia dei suoi bisogni materiali e delle esigenze della sua vita intellettuale, morale, spirituale e religiosa; di ogni uomo, diciamo, e di ogni gruppo umano, di qualsiasi razza e continente” (Gaudium et spes, n° 64).
32 Laborem exercens, in fine. Nell’Enciclica Centesimus annus (1991) Giovanni Paolo II ha illustrato gli aspetti positivi e negativi della moderna economia di impresa (nn. 32-33) e i pericoli che possono rappresentare le economia piu avanzate (nn. 36-38). Infine presenta il fenomeno nuovo della “globalizzazione dell’economia” (n. 58).

 

 

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