Seleziona la tua lingua

Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfIntroduzione

«All’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell’economia. Ne abbiamo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano». Ecco come Benedetto XVI affronta, nell’Enciclica Caritas in Veritate, le difficolta contingenti e le disfunzioni strutturali dell’economia e delle convinzioni che ne influenzano il divenire. In continuità con quanto scritto dai Suoi predecessori, al centro del pensiero del Pontefice vi è lo sviluppo integrale umano. Uno sviluppo autentico di ogni uomo e di tutto l’uomo, cosi come ricordato nell’Enciclica Popolorum Progressio. Il Pontefice constata come l’esplosione dell’interdipendenza planetaria – la globalizzazione –, l’eclettismo e l’appiattimento culturali richiedano un impegno inedito e creativo molto vasto e complesso per cui si rende necessario «dilatare la ragione e renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche animandole nella prospettiva di quella «civiltà dell’amore» il cui seme di Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura» (Caritas in Veritate, n. 33).

Prendendo spunto dalla traiettoria etico-culturale tracciata nell’Enciclica Caritas in Veritate, di seguito si tenta di individuare e far emergere alcuni aspetti dell’economia e delle scienze economiche e manageriali che più di tutti potrebbero essere oggetto di una seria rivisitazione.

Gli attuali limiti delle teorie economiche e manageriali

Gran parte degli economisti, nella formulazione delle loro teorie economiche, hanno assecondato per anni una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza (Caritas in Veritate, n. 34). Le teorie macroeconomiche hanno descritto fenomeni quali la domanda aggregata di consumo o l’offerta aggregata di beni e servizi, la disoccupazione, l’inflazione, la formazione dei tassi di interesse, l’andamento e l’efficacia della spesa pubblica. Le teorie microeconomiche hanno classificato i protagonisti dell’attività economica in consumatori (individui o famiglie) e produttori (imprese) e ne hanno esaminato il comportamento in termini di utilità marginale, elasticita della domanda e dell’offerta, preferenze individuali. Teorie macro e microeconomiche che, in sostanza, pongono al centro del sistema un’economia delle “quantità” governata da modelli decisionali definiti come “obiettivamente razionali”. Quantità da aggregate e disaggregare. Equazioni matematiche che ambiscono a descrivere e contenere in un vettore di varabili il comportamento delle persone e di complesse organizzazioni di persone (su tutte, le imprese). Queste teorie, basate su convinzioni, hanno espresso e servito per molti anni – e continuano ancora a farlo nonostante le recenti critiche mosse da accademici di fama e dalla stampa1. – gli interessi di alcune frange dell’alta dirigenza aziendale e di determinate tipologie di investitori istituzionali, giustificando certe modalità di “creazione di valore” d’impresa e di distribuzione del “valore aggiunto”. Non mancano, e bene sottolinearlo, studi teorici che indagano gli aspetti motivazionali e sociali del comportamento degli agenti economici (si pensi alla behavioral economics che, pur non abbandonando talune ipotesi del modello neoclassico, fa propria la prospettiva della razionalità limitata). Inoltre, la letteratura manageriale contemporanea offre importanti spunti di riflessione e argomentazioni sul tema dell’etica d’impresa, ma non rappresenta una corrente di pensiero dominante. Ad ogni modo, verso gli anni Ottanta l’orientamento all’economia delle quantità si è manifestato in tutta la sua pienezza con l’avvento della financial economics. Concetti quali la massimizzazione dei rendimenti di un portafoglio di mercato, la frontiera efficiente delle scelte di investimento, il rapporto rischio-rendimento e il modello di governo aziendale principale-agente, basati sull’ipotesi di efficienza dei mercati, hanno trovato terreno fertile nelle sale operative dei fondi speculativi – hedge funds –, delle grandi banche d’investimento e delle banche commerciali che, successivamente all’abrogazione nel 1999 del Glass-Steagall Act, si sono esse stesse trasformate in fondi speculativi facendo dell’ingegneria finanziaria applicata al trading “in conto proprio” e “per conto terzi” una delle loro principali attività e fonte di guadagni, tradendo in parte la loro missione sociale di sostegno alle imprese e alle famiglie.

Le teorie economiche neoclassiche, accompagnate dai modelli di finanza quantitativa della financial economics, per molto tempo hanno contribuito a legittimare i fasti della “finanza creativa” e i “talenti” che ne hanno fatto ampiamente ricorso traendone lauti guadagni. Queste teorie hanno protetto un sistema economico-finanziario rendendolo autoreferenziale e credibile agli occhi della classe politica e dell’opinione pubblica. Allo stesso tempo, queste teorie sono state diffusamente accettate da parte dei vertici delle grandi imprese industriali e bancarie (il riferimento e soprattutto alla grandi corporation americane ed europee) è sono state in grado di conquistare l’entusiasmo di molti, tra professionisti, accademici e studenti. Gli assiomi posti a fondamento delle teorie neoclassiche e dell’economia finanziaria hanno contribuito a formare il substrato culturale da cui sono maturati atteggiamenti di tipo predatorio nei confronti della “ricchezza” e del lavoro umano. Sono stati realizzati veri e propri modelli educativi spendibili nella pratica imprenditoriale e professionale diffusi nelle aule delle più prestigiose scuole di business del mondo. Forse la paura di un eventuale ma improbabile ritorno, nei momenti di crisi, di un’idea di economia pianificata, forse il prevalere del dogmatismo liberista incardinatosi nelle logiche mercantili globali o forse semplicemente l’astuzia e l’avidità di pochi capaci di cavalcare l’onda del mercatismo (termine recentemente coniato dal Ministro Tremonti per indicare la versione degenerata del liberismo2, hanno fatto si che il comportamento delle grandi istituzioni economiche (in particolare le corporation) si sia appiattito verso pratiche mercatorie giustificate da teorie economiche autoreferenziali e modelli finanziari di tipo quantitativo-centrici basati su convinzioni non sempre corrette o su assunti incompleti. I capisaldi epistemologici delle teorie economiche neoclassiche e dell’economia finanziaria hanno orientato le scelte di politica economica degli Stati e, soprattutto, il comportamento (strategico ed organizzativo) delle grandi corporation. In altre parole, hanno definito i tratti etico-culturali di un complesso sistema economico-finanziario ed imprenditoriale che, soprattutto dopo gli anni della crisi petrolifera del 1973, ha avuto uno sviluppo “disordinato” ma sostenuto da periodi prolungati di crescita della produzione e incremento dello stock di ricchezza che ha dato solo l’impressione di un maggior benessere diffuso. L’economia finanziaria ha messo radici nel diritto commerciale, nelle discipline legale all’organizzazione d’impresa e al management.


L’individualismo metodologico e il neodarwinismo posti a fondamento delle teorie economiche neoclassiche hanno forgiato l’etica personale dei manager e orientato il modo di percepire i diritti e le responsabilita delle imprese.

Ad una classe di manager ed imprenditori che con analisi lungimiranti si sono fatti interpreti dei profondi legami che lega la loro impresa ai territori in cui opera, negli ultimi anni si è affiancata una classe cosmopolita di manager che rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi e che, ancor più grave, impongono l’adozione di una visione economica ed imprenditoriale di breve o di brevissimo termine (Caritas in Veritate, nn. 32 e 40). L’economia finanziaria di tipo speculativo - predatoria, giammai sfumata del tutto e sempre pronta a riemergere dall’alveo della cupidigia umana, rappresenta ancora lo stimolo ideologico principale per tante imprese e manager. I casi Parmalat, Enron, Worldcom (solo per citarne alcuni ben noti) e, a livello generale, la recente crisi finanziaria che ha investito il mondo economico occidentale, hanno dimostrato come anche una grande impresa industriale o bancaria possa collassare con estrema facilita quando il vertice aziendale e l’intera organizzazione perdono di vista la natura umana, la visione personalista e la dimensione comunitaria dell’attività economica. Vero è che le grandi imprese contribuiscono al progresso economico ma il giudizio etico-sociale complessivo sul loro agire e arduo. «Occorrerebbe accertare – osserva il Prof. Zanda – se la logica di sviluppo della grande impresa gratifica i bisogni autentici dell’umanità, e se la società moderna ha la capacità di controllare il comportamento della grande organizzazione economica in maniera che la macchina produttiva resti permanentemente al servizio dell’uomo»3.

Il tecnicismo economico, l’efficienza dei mercati, la concorrenza perfetta, il valore degli azionisti, sono concetti asettici e privi di qualità normative che, tuttavia, sono stati elevati a valori sociali intrappolando i manager in un circolo vizioso. Le teorie economiche – osserva Ghoshal – hanno «formalmente assolto i manager da tutti gli obblighi morali e, dal momento che le responsabilità umane si fondano in definitiva sulla ragione e la morale, ha liberato i manager da ogni senso di responsabilità per i loro sforzi … Il riduzionismo da un lato e l’esagerazione dall’altro nella teoria e nell’analisi si sono reciprocamente rafforzati fino a rendere la pratica allo stesso tempo inumana e irresponsabile. Da questo calderone è emerso l’ordine normativo nel quale i manager oggi si trovano rinchiusi»4. I principali attori dell’economia moderna sono confinati in una prigione etico-culturale frutto di una “assurdità nella teoria” ma che li rende responsabili di una “disumanizzazione nella pratica”. In ambito organizzativo, si è consolidato un imperialismo culturale monodimensionale appiattito sull’idea di un tecnicismo/razionalismo economico che giustifica tutto e tutti sulla base dei risultati economici. Scrive Mons. Fisichella: «abbiamo assistito a un adombramento nella rilevanza non solo dei problemi connessi con l’idea stessa di impresa e con i suoi risultati in prospettiva di crescita di un giusto benessere materiale, ma si è ignorato anche l’insieme di elementi necessari per comprendere e porre in essere una coerente cultura d’impresa»5.

Una visione antropologica della cultura d’impresa

E' necessaria un’evoluzione delle teorie economiche e manageriali che incida profondamente sulla cultura organizzativa per evitare il rischio di ulteriori clamorose derive strategiche quali quelle che hanno portato molte grandi imprese ad assumere elevati rischi finanziari in nome di un’idea di progresso economico lontana dalle vere esigenze delle persone. Una nuova teoria economica e manageriale dovrebbe aiutare a liberare la cultura d’impresa dal mito dell’individualismo metodologico, di quella posizione cioe che analizza le azioni solo in termini di razionalità (massimizzazione della funzione di utilita individuale di tipo monodimensionale) e nega il carattere relazionale della persona. «La sfera economica – ammonisce il Pontefice – non è ne eticamente neutrale ne disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perche umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente» (Caritas in Veritate, n. 36). Il Pontefice invita a profondi cambiamenti nel modo di intendere l’impresa. «E' vero – osserva Benedetto XVI – che si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa», ma le impostazioni etiche che guidano il dibattito non sono tutte accettabili (Caritas in Veritate, n. 40). Osserva la Prof.ssa Alford che il problema alla base delle più diffuse argomentazioni sull’etica e sulla responsabilità sociale dell’impresa consiste in una antropologia incompleta. «Un punto di partenza individualista – scrive la Alford – non riesce a riconoscere un bene reale e intrinseco nella relazione tra persone. Su tale punto debole, un’antropologia personalista, come sviluppata all’interno della tradizione del PSC (Pensiero Sociale Cristiano, n.d.T.), può essere d’aiuto. L’approccio personalista riconosce l’importanza dell’aspetto individuale dell’essere umano nonche i vantaggi e guadagni creati dagli elaboratori delle teorie individualiste»6. Per superare gli attuali limiti delle teorie economiche e manageriali nel più ampio e turbolento contesto della globalizzazione, dei mutamenti tecnologici e dei cambiamenti geopolitici appare quindi opportuna una svolta antropologica in senso personalista. «La transizione insita nel processo di globalizzazione – avverte Benedetto XVI – presenta grandi difficolta e pericoli, che potranno essere superati sole se si sapra prendere coscienza di quell’anima antropologica ed etica, che dal profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione sociale. Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da prospettive etico-culturali di impostazione individualistica e utilitaristica» (Caritas in Veritate, n. 42). Un cultura ed un’etica d’impresa improntata su una visione antropologica avrebbe l’effetto di influenzare in modo profondo e duraturo i valori e gli obiettivi delle persone e lo spirito che permea l’intera impresa. In altre parole, «perchè si possa procedere verso un’economia imprenditoriale che porti impressi in se i segni indelebili di vera libertà è necessario e determinante che si ponga a fondamento una visione antropologica che sorregge lo stesso impianto etico»7. La razionale giustificazione di prassi manageriali quali la ricerca della massimizzazione del profitto, l’elargizione di compensi multi milionari ad amministratori e top manager, la speculazione finanziaria, sono il risultato di una totale assenza, nell’analisi economica e finanziaria moderna, di un’etica sociale. Nel contesto della recente crisi finanziaria è emersa l’irrazionalità etico-sociale della razionalità economica obiettiva la cui deriva pragmatica si è dimostrata essere hubris, cioè tracotanza del più forte. L’agire irresponsabile delle grandi imprese – consapevolmente indotto dalle scelte dei manager – può essere ascritto al contemporaneo manifestarsi della scissione tra etica sociale ed etica personale e dell’oscuramento della finalità vera (politica, sociale e culturale) dell’attività economica e imprenditoriale. La verità, in campo economico, trova la sua chiave di lettura nelle sue diverse interconnessioni con la politica, con la società e con la cultura. Queste tre dimensioni distinguono un’economia o un’istituzione economica di tipo civile da quelle asociali o socialmente neutre in cui le leggi anonime e impersonali del mercato e le forze della competizione si sostituiscono alle relazioni interpersonali e all’evoluzione culturale8. Se i vari attori del sistema economico fossero guidati dal solo libero arbitrio e non avessero un’etica-sociale da seguire non potremmo fidarci di loro o sarebbero assimilabili a pericolosi asociali9. Come osserva puntualmente il Prof. Compagnoni, la presenza di norme etiche costruite alle luce della ragione aumenta la prevedibilità del comportamento altrui e quindi favorisce la vita sociale e lo sviluppo umano integrale. Sviluppo umano che, per potersi definire integrale, deve tener conto anche dell’ambito ecologico in quanto «la natura, specialmente nella nostra epoca, e talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente … Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio» (Caritas in Veritate, n. 51). Il Pontefice introduce una nozione di sostenibilità ambientale diversa da quella consegnataci dalle scienze sociali (giustamente concentrate sul problema dell’equita intergenerazionale). Egli supera i limiti del razionalismo economico («per salvaguardare la natura umana non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici») e arriva al cuore del problema: la complessiva tenuta morale della societa. La visione ecologica delineata dal Pontefice, porta l’impresa a svilupparsi in modo sano ed equilibrato e a radicarsi sempre più nell’ambiente naturale in cui opera: l’attività economica – in quanto actus personae – e l’ecologia non si escludo ma sono condizione l’una dell’altra.

Osservazioni conclusive

Perchè oggigiorno ancor più che in passato si intravede la necessità di ripensare le moderne teorie economiche e di traghettare l’economia contemporanea nel XXI secolo ridefinendo priorita e doveri dell’agire economico-imprenditoriale? L’esigenza nasce dalla percezione che la società prossima ventura, il manager e l’impresa del futuro, una volta dominato il processo di globalizzazione, dovranno confrontarsi con il progresso nelle scienze mediche e biologiche e le innovative applicazioni tecnologiche che ne deriveranno. Avverte il Pontefice: «campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnicita e la responsabilita morale dell’uomo e oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale» (Caritas in Veritate, n. 74). I temi legati alla bioetica rendono l’Enciclica uno scritto dal valore premonitivo per chi un domani non troppo lontano dovra gestire le potenzialità commerciali delle biotecnologie che, se da una parte renderanno grandi benefici alle persone in termini di miglioramento delle condizioni di vita, dall’altra parte richiederanno un’attenta valutazione etico-sociale. Il Pontefice prevede scenari inquietanti per il futuro dell’uomo a causa di «posizioni culturali negatrici della dignità umana … destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana» (Caritas in Veritate, n. 75). A parere di chi scrive, la prossima Rivoluzione industriale sarà guidata dall’ingresso sul mercato delle biotecnologie e permettera alle economie di tornare ai livelli di crescita almeno pari a quelli verificatisi nei decenni scorsi. Alla luce di quanto è stato scritto nei precedenti paragrafi e a meno di cambiamenti di indirizzo in campopdf economico, esiste il pericolo che le applicazioni commerciali di queste nuove tecnologie mettano radici profonde nel mercatismo e traggano successivo sostentamento ideologico dal razionalismo economico. Senza l’apertura della ragione alla trascendenza, queste innovazioni nel campo della biotecnologia sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana (Caritas in Veritate, nn. 74 e 75). Pertanto, solamente un’etica economica ed una cultura d’impresa improntate ad una visione personalista, relazionale e comunitaria del progresso economico renderanno possibile lo sviluppo integrale della persona e quindi il superamento del mercatismo, degli squilibri sociali causati dal processo di globalizzazione e delle incertezze legate all’introduzione delle nuove tecnologie.


NOTE:

1 Su tutti, vedasi quanto scritto da G. A. Akerlof - R. J. Shiller (Spiriti animali. Come la natura umana puo salvare l'economia, Rizzoli, Milano, 2009) e da P. Krugman (Economisti per caso. E altri dispacci dalla scienza triste, Garzanti, Milano, 2000) e i recenti articoli apparsi su The Economist (July 18-24, 2009).
2 G. Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, Milano, 2008.
3 G. Zanda, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comportamento, Giuffre, Milano, 1974, p. 546.
4 S. Ghoshal, P. Moran, Alla ricerca di una buona teoria manageriale, in S. Gloshal, Una buona teoria manageriale, IlSole 24Ore, Milano, 2009, pp. 15-16.
5 Mons. Rino Fisichella, Valori religiosi e sviluppo economico, in Unione Industriale di Torino (a cura di) Etica economica legalità, Il Sole 24Ore, Milano, 2008, p. 35.
6 H. Alford, Il pensiero sociale cristiano e le deboli radici etiche della RSI, in H. Alford, F. Compagnoni, Fondare la responsabilita sociale d'impresa, Citta Nuova, Roma, 2008, p. 199.
7 Mons. Rino Fisichella, Valori religiosi e sviluppo economico, cit., p. 36.
8 Cfr. S. Zamagni, L'economia del bene comune, Citta Nuova, Roma, 2007, p. 18.
9 Cfr. F. Compagnoni, Diritti umani e responsabilita sociale d'impresa. Fondamenti e problemi aperti, in H. Alford, F. Compagnoni (a cura di), Fondare la responsabilita sociale d'impresa, cit., pp. 241-242.

 

 

BORSE DI STUDIO FASS ADJ

B01 cop homo page 0001Progetto senza titolo

 

 PCSTiP FASS

foto Oik 2

Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

Introduction of Piotr Janas OP