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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

Il testo è preso dalla relazione “ Il concetto di bene comune di fronte alla sfida del terzo millennio” tenuta dal Professore padovano al Congresso Tomistico internazionale” (Roma, 2003) e che è pubblicata integralmente in:http://www.e-aquinas.net/pdf/pl_berti.pdf

pdfNello stesso senso parla anche un famoso passo della Summa theologiae, continuamente citato da quanti cercano di risolvere il problema del rapporto tra il bene del singolo e il bene della città in Tommaso. Anche quest’opera, come i commenti ad Aristotele, afferma ripetutamente che la comunità politica è il tutto di cui il singolo uomo è solo una parte1, e che il bene del tutto è superiore a quello della parte2. Tuttavia in un punto Tommaso dice: “l’uomo non è ordinato alla comunità politica secondo tutto se stesso e secondo tutte le cose sue (secundum se totum et secundum omnia sua) ..., ma tutto cio che l’uomo è, e ciò che può , e ha (totum quod homo est, et quod potest, et habet), deve essere ordinato a Dio”3.

Alcuni spiegano questo passo ricorrendo alla distinzione tra individuo, cioè realtà corporea, e persona, cioè realtà spirituale, e affermano che l’uomo in quanto individuo dipende dalla comunità politica ed è tenuto a servirla, mentre in quanto persona sorpassa la comunità politica ed ha un fine sopra- temporale4. A me sembra non necessario ricorrere alla suddetta distinzione, che rischia di spezzare l’unità dell’uomo e che del resto in Tommaso non si trova, ma è stata introdotta da alcuni neotomisti. Il solo concetto tommasiano di persona, intesa come sostanza razionale, è sufficiente a salvaguardare la sporgenza della persona sulla società politica. Ciò risulta da vari passi concernenti non la società politica in particolare, ma l’universo in generale, il quale è anch’esso un tutto di cui le singole creature sono parti. A questo proposito infatti Tommaso afferma da un lato che le parti hanno come fine la perfezione del tutto, ma dall’altro che le creature razionali, oltre a questo, hanno come fine Dio, che possono attingere con l’operazione a loro propria, cioè conoscendo e amando5. Altrove egli afferma che “il bene della moltitudine è maggiore del bene di uno solo che fa parte della moltitudine, ma è minore del bene estrinseco a cui la moltitudine è ordinata (bonum extrinsecum ad quem multitudo ordinatur)6; e altrove ancora che “le sostanze intellettuali sono governate per se stesse, le altre cose invece per esse” e che “la creatura razionale è governata per se stessa”7.

Del resto anche a proposito della società politica Tommaso introduce esplicitamente la distinzione tra due fini, come risulta con chiarezza dall’opuscolo De regimine principum, scritto contemporaneamente al commento alla Politica e rimasto, come questo, incompiuto. Qui, dopo avere affermato che il fine dell’autorità politica (per la quale Tommaso preferisce la forma monarchica) è il bonum commune multitudinis e che questo consiste anzitutto nella pace, si ricorda anche che il fine ultimo dell’uomo è la beatitudine, la quale è la sua perfezione finale e il suo bene completo (hominis finalis perfectio et bonum completum)8. I due fini si integrano nel modo seguente: il bene comune della “moltitudine congregata”, cioè della società politica, è, come dice Aristotele, il vivere bene, cioè il vivere secondo virtù; ma poichè l’uomo, vivendo secondo virtù, è ordinato al fine ulteriore, che consiste nella fruizione di Dio, è necessario che il fine della moltitudine umana sia il medesimo che quello del singolo uomo. “Non è dunque fine ultimo della moltitudine congregata vivere secondo virtu, ma attraverso una vita virtuosa pervenire alla fruizione divina”9.

Naturalmente quest’ultimo non è il fine immediato della comunità politica, e quindi dell’autorità che la governa: esso è il fine ultimo, e ad esso deve provvedere, secondo Tommaso, l’autorità religiosa, cioè in ultima analisi il papa. Invece l’autorità politica, cioè il re, deve provvedere alle cose che sono ordinate a quel fine ultimo, cioè “a tutti gli uffici umani” (omnibus humanis officiis). Più precisamente, “poichè della vita che viviamo bene nel tempo presente è fine la beatitudine celeste, è compito del re provvedere alla vita buona della moltitudine (vitam multitudinis bonam procurare) secondo questo criterio, cioè secondo quanto conviene al conseguimento della beatitudine celeste, ossia fornire le cose che conducono alla beatitudine celeste e proibire, nella misura in cui ciò sia possibile, quelle ad esse contrarie”.

Per non essere frainteso, Tommaso precisa quali sono le cose che conducono alla beatitudine celeste, cioè non solo l’operare secondo virtù (operatio secundum virtutem), ma anche “una quantità sufficiente di beni corporali, il cui uso è necessario all’atto della virtù (corporalium bonorum sufficientia, quorum usus est necessarium ad actus virtutis)”. In conclusione, dunque, “tre cose sono necessarie ad istituire la buona vita della moltitudine: primo, che la moltituidine sia costituita nell’unità della pace; secondo, che la moltitudine, unita dal vincolo della pace, sia diretta ad agire bene; ... terzo, che per l’industriosità di chi governa sia assicurata una quantità sufficiente di cose necessarie a vivere bene (ut per regentis industriam necessariourum ad bene vivendum adsit sufficiens copia)10.

Pertanto, poichè la società politica non è una sostanza, ma una relazione, il bene comune a cui pensa Tommaso è il bene di tutti e di ciascuno, cioè un bene che non deve mai togliere all’individuo quello che gli è essenziale per essere uomo; non un bene a sè stante, perchè appunto la società non è una sostanza a sè stante, ma quel bene che rifluisce sui singoli per il fatto della loro unione, un bene insomma del quale tutti partecipano. Qualunque cosa si pensi dell’identificazione del bene ultimo con la beatitudine celeste, si deve convenire che per Tommaso il bene comune è essenzialmente un bene terreno, “temporale”.

Ma l’aspetto che qui maggiormente interessa della concezione tommasiana del bene comune, in relazione al fenomeno sopra descritto del declino dello Stato nazionale moderno, è un altro, cioè è quello che consegue dal principio sopra affermato, secondo il quale “ciascuna causa tanto è anteriore e preferibile, quanto è maggiore il numero di cose a cui si estende” (unaquaeque causa tanto prior est et potior quanto ad plura se extendit). In base a questo principio, infatti, non solo il bene dell’intera città è maggiore di quello del singolo individuo, ma ancor più grande è il bene che si riferisce “ad un’intera gente, nella quale sono contenute molte città” (toti genti, in qua multae civitates continentur). Quindi “questo bene, cioè quello che è comune ad una sola o a più città”, costituisce il fine della vita umana, cioè di questa vita terrena, del quale si deve occupare la scienza politica. Se gens significa popolazione, o nazione, allora la civitas, in quanto contenuta nella gens, è una società particolare, come potevano essere nel secolo XIII Roma, Napoli o Parigi, e quindi il bene comune va oltre le dimensioni di essa. Se invece la polis è la società politica perfetta, come era per Aristotele, cioè quello che sarebbe divenuto in età moderna lo Stato nazionale, allora il bene comune va anche oltre le dimensioni di quest’ultimo. In tutti i casi il bene comune sembra essere un bene universale, cioè proprio all’intera specie umana.

 

NOTE:

1 S. Thomae Aquinatis Summa theologiae, Roma, Forzani, 1927, I-II, q. 96, a. 4; II-II, q. 64, a. 2; II-II, q. 65, a. 5.
2 Ibidem, I-II, q. 113, a. 9, ad secundum
3 Ibidem, I-II, q. 21, a. 4, ad tertium
4 Cfr. J. Maritain, La persona e il bene comune, Brescia, Morcelliana, 1973, pp. 44-45
5 Summa theologiae I, q. 65, a. 2.
6 Ibidem, I-II, q. 39, a. 2, ad secundum <
7 Summa contra Gentiles, Roma, Forzani, 1927, III, c. 112
8 D. Thomae Aquinatis De regimine principum, Torino, Marietti, 1971, I, cc. 1, 2 e 8
9 Ibidem, c. 14
10 Ibidem, c. 15

 

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