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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfCon saggezza senile, Schopenhauer ebbe modo di scrivere: «chi vive tanto da veder passare due o addirittura tre generazioni di uomini si sente come uno spettatore che, durante la fiera, assiste alle esibizioni di saltimbanchi di ogni specie nei loro baracconi, standosene seduto a guardare lo stesso spettacolo per due o tre volte di seguito: i numeri erano studiati per una sola rappresentazione e, una volta scomparse l'illusione e la novità, non fanno più alcun effetto».1 Le tristi note che affiorano dalla riflessione schopenaueriana potrebbero trovare la seguente traduzione, in un linguaggio più moderno: il film della vita ha una trama costante; spesso cambiano i personaggi, le scenografie e le sceneggiature, la qualità della recitazione, ma alcuni tratti ricorrenti sono visibili a tutti. Se si vuole, è il fascino della storia, che non si ripete mai, e al tempo stesso lascia spazio all'interpretazione dei suoi tratti uniformi.

Proviamo a tradurre queste considerazioni preliminari nel rapporto fra le generazioni. I giovani sono sempre strani, agli occhi delle persone anziane. Fanno cose anomale, credono e inseguono miti incomprensibili, hanno stili di vita curiosi. In un certo senso, sono come dei barbari, e spesso "barbari" o "selvaggi" è il modo con il quale le persone mature qualificano i comportamenti eccentrici dei giovani. A dire il vero, si tratta di un linguaggio che non appartiene solo alla vita quotidiana. Per esempio, l'autorevole Talcott Parsons usò la stessa forte espressione per denotare l'immissione delle nuove generazioni nella vita sociale: «quella che è stata talvolta chiamata l'invasione barbarica dell'ondata dei nuovi nati costituisce senza dubbio un aspetto critico della situazione di ogni società. Alla mancanza di maturità biologica si accompagna il fatto importante che il bambino deve ancora apprendere i modelli di comportamento attesi dalle persone che si trovano nei suoi status e nella sua società».2 L'orda barbarica costituita dalle nuove generazioni deve essere riportata nell'alveo del costume maggioritario, consolidato, ragionevole, cortese, e non sempre vi riesce.

Anche qui, potrebbe valere il processo della rivisitazione a ritroso dell'avvento delle orde giovanili ritenute barbariche. Oggi il giovane trafitto di piercings scandalizza le persone anziane quanto (o forse meno!) la minigonna della fine degli anni Sessanta sconvolgeva le generazioni precedenti. De Coubertin, nel 1912, fa di tutto per impedire le gare femminili nella piscina, per via dello scandaloso costume che sarebbero state costrette ad indossare, e così via. È probabile che fra qualche secolo i posteri proveranno sconcerto, anzi disgusto, osservando certi nostri costumi, come nuotare in tanti nello stesso specchio d'acqua, o viaggiare pigiati l'uno con l'altro nelle vetture della metropolitana, o semplicemente scambiarsi un saluto stringendosi la mano.

D'altronde, il controllo sociale produce un assetto nel quale l'equilibrio raggiunto si manifesta con alcuni comportamenti e atteggiamenti conformisti. Nella società del consumo, questo conformismo si esprime in stili di vita, in codici di comportamento, arrivando fino al linguaggio e - si accetti la provocazione - soprattutto, al guardaroba. Se consideriamo che l'incomprensione generazionale è, all'inizio, una incomprensione soprattutto di natura estetica e simbolica, possiamo comprendere come il conflitto culturale con i giovani avvenga sul piano dell'ideologia del consumo. Quando apparvero sulla scena sociale gli hippie, i punk, le altre controculture giovanili, prima ancora del contenuto ideale della loro espressione generazionale (peraltro rilevante), a colpire la mentalità borghese fu il disgusto dettato dagli indumenti, dagli ornamenti, dalla toilette di questi giovani. La creatività nello stile di vita sfuggiva alle codificazioni del sistema del consumo corrente, e divario generazionale e frattura politica divennero i volti della stessa medaglia (basta guardare alla mobilitazione giovanile della fine degli anni Sessanta per gli hippie e per la fine degli anni Settanta per i punk).

Ma se le cose stanno così, bisognerebbe riflettere sulla mentalità che facilmente si scandalizza di fronte agli stili di vita giovanili. Dietro l'invocazione di decoro, di garbo, di buona creanza, può esserci più semplicemente il controllo esercitato dall'ideologia del consumo.

Anche oggi, il giovane non è reputato ribelle per le sue idee, ma primariamente per il suo rifiuto di sfilarsi il piercing dalla lingua, dal naso, dall'ombelico, dall'arcata sopraccigliare, sui quali è difficile alimentare il meccanismo del consumo, con le sue regole frenetiche. L'ideologia del consumo ha da tempo intrapreso una dura battaglia per accaparrarsi le giovani generazioni, ed è pronta a mettere in campo tutti i suoi mezzi per non lasciarsele scappare. Ha un piano quasi diabolico per scandire i passaggi dell'età. I riti di iniziazione per uscire dall'adolescenza ed entrare nella pienezza giovanile sono di frequente dettati dal consumo: la frequentazione della discoteca, la «megafesta» per il diciottesimo compleanno, la prima autovettura. I giovani sono i primi referenti della grande macchina del consumo, a tal punto che tutte le altre fasce d'età, in funzione di come consumano, sono qualificate in riferimento alla gioventù. Così, lo stile di vista - cioè lo stile del consumo - produce categorie intergenerazionali: di un vecchietto che cambia spesso abiti sportivi si dice che è un adulto-adolescente, di un giovane che va in giro sempre con lo stesso abito sobrio si dice che è un giovane-invecchiato, poi ci sono i giovani-perenni e gli anziani-preistorici.

Tante storie quotidiane, che veniamo a conoscere quando in esse accade qualcosa di irreparabile, raccontano di genitori che progettano per i figli un circuito del consumo forzato e vizioso, fatto di articoli di moda, circoli sportivi adatti alla condizione sociale, lezioni di musica e di altre attività ritenute consone allo status familiare. Anzi, spesso si fa di tutto per anticipare l'ingresso del bambino nel circuito vizioso, costringendolo a un tour de force che dovrebbe portarlo ad essere un lettore e scrittore accanito prima d'iniziare la scuola dell'obbligo, un pianista provetto in giovanissima età, un campione di nuoto pronto per le Olimpiadi, e così via. Competizione, successo, consumo, sono spesso i pilastri dell'ideologia perbenista. Con risultati, come dimostrano alcune ricerche effettuate dalla psicologia dell'età evolutiva, spesso disastrosi. La mentalità del successo e dell'approvazione sociale può comportare seri rischi di criticità psicologica allorquando il giovane comincia a immettersi nella vita adulta e le sue esigenze possono non avere la priorità nei luoghi istituzionali nei quali è chiamato a esprimersi.

In questo quadro possiamo spiegare qualche brano fondamentale della storia dei movimenti giovanili degli ultimi decenni. Si tratta dell'ampio mondo delle controculture giovanili, scosso innanzitutto dal rifiuto per la mentalità borghese, giudicata non più solo nella sua collocazione di classe sociale antagonista, ma rifiutata nella sua struttura ideologica mercificante e consumistica. La cultura punk già nella denominazione si collega al rigetto dell'ideologia del consumo. Tradotto letteralmente, punk è un aggettivo che significa «di scarsa qualità», o «da pochi soldi». Sorge negli anni Settanta, ha un volto musicale importante che scaturisce proprio dalla contrapposizione al grande business delle case discografiche (all'inizio, i gruppi musicali che iniziano a divulgare il punk sono composti da musicisti non di professione, poi esploderanno i Sex Pistols, Clash, Damned, Ramones, Dead Boys). Si caratterizza per essere uno strumento di rottura, rabbioso ed essenzialmente nichilista. «L'unica cosa che voglio è distruggere tutto»: sono le parole del leader Johnny Rotten del gruppo punk-rock Sex Pistols. Mentre il mondo borghese esibisce i propri stili di vita, i punk vanno in giro dandosi il fondo tinta bianco e indossando lunghi cappotti neri, generando ostilità in tutti, perfino negli hippie che negli anni Settanta erano ancora in circolazione. Lasciamo la parola ancora alla cultura punk: «Il punk è la voce del dissenso, il punk è attacco su tutti i fronti al sistema. Il punk si mette contro tutti gli stereotipi e rifiuta i modelli imposti: quelli della classe lavoratrice e quelli borghesi».3 Si trattava di un modo per sconfiggere l'incapsulamento dei giovani in determinate classi sociali: dal punk si produsse una subcultura proletaria, animata da un marxismo estetico, cioè riflessivo, adottato come stile di vita, senza alcuna volontà rivoluzionaria o di cooptazione dell'altro, che raccoglieva giovani provenienti dalle diverse classi sociali.4 Ecco, per esempio, perché il fenomeno punk è diverso da quello hippie, o da quello sessantottino in genere. Questi ultimi anelavano all'utopica società senza classi, nella quale l'amore estatico e il pacifismo sensibile avrebbero dovuto rivoluzionare l'ordine sociale. Il motto della cultura punk, invece, era «no future», non c'è futuro, agghiacciante per un movimento giovanile. Rivelava la profonda sofferenza interiore, la sensazione dell'estemporaneità dell'essere che, al pari di qualsiasi espressione sociale in un contesto dominato dalla legge del consumo, non poteva avere alcun avvenire. E difatti, negli anni successivi l'ideologia del consumo inghiottirà anche la controcultura punk, mercificandone le forme in organizzate strategie produttive e commerciali.

Il fenomeno punk, quindi, politicamente non intende aderire all'impostazione della polarizzazione e dello scontro di classe. Esso accoglie le distanze ideologiche e cerca di rappresentarne la sintesi. Questa sintesi, tuttavia, non anela alla edificazione di una società ideale alternativa, non affida se stessa all'utopia, ma pretende per sé spazi reali e fisici in questa società esistente società degradata. Solo così possiamo spiegarci un fenomeno significativo e dirompente come l'occupazione dei centri sociali, dal Leoncavallo a Milano, al Forte Prenestino a Roma, al Livello 57 a Bologna, all'Officina 99 a Napoli. Si tratta di una redistribuzione spontanea e autogestita del diritto all'abitazione. A partire dagli anni Settanta, e poi per i decenni successivi fino a oggi, si moltiplica la presenza di questi spazi autogestiti, che nascono come spazi liberati, strappati al degrado urbano, dove poter vivere in modo alternativo rispetto alla mercificazione della vita quotidiana, alla spettacolarizzazione della cultura, trattata come bene di consumo. Così, all'interno di questi centri sociali occupati si organizzano, con mezzi propri, eventi socioculturali come concerti, rassegne cinematografiche, mostre artistiche e fotografiche. Riescono anche a sfidare le leggi del consumo offrendo a prezzi modici libri, riviste, dischi, video, spesso autoprodotti. Il loro scopo è già raffigurato nel simbolo universalmente adottato: un cerchio squarciato da una saetta, che sta a significare una realtà chiusa (come può essere quella cittadina) infranta dalla spontaneità della forza giovanile, la quale via via prende le distanze dalle originarie forme nichiliste del primo punk, e iniziano a promuovere campagne contro il consumo di eroina.

«No future»: difatti la cultura punk s'arrese di fronte alla pervasiva logica del consumo, che arrivò ad utilizzare gli stessi simboli della controcultura metropolitana per vendere il prodotto punk nel grande mercato della massificazione delle tendenze sociali. Eppure, la cultura punk ha rappresentato uno spartiacque fondamentale per comprendere le tendenze più attuali della gioventù odierna.

I giovani degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, hanno posto un rifiuto del presente e dell'esistente, e cercato luoghi e ragioni di espressioni alternative. Fra utopie e autonomie, fra sollecitazioni rivoluzionarie e tendenze controculturali, hanno proiettato il superamento della società borghese in ambiti e costumi di rottura, clamorosamente in contrasto con l'ordinarietà della vita quotidiana. Gli hippie si mettevano in viaggio verso i paesi orientali, dove il trip poteva altrimenti surrogarsi nella droga, o si associavano in comunità regolate sui bisogni primordiali. I punk occupavano stabili in disuso. Ma la ricerca di spazi e tempi alternativi si concretizzerà solo negli anni Novanta, quando le nuove possibilità della rivoluzione telematica renderanno realtà - realtà virtuale - i sogni alternativi e controculturali delle giovani generazioni.

Quella che Parsons chiamava orda barbara si è ormai trasformata in una generazione extraterrestre. Le nuove generazioni sono ipertecnologizzate. Irridono alla vecchia rivoluzione elettronica e informatica: si muovono all'interno di rapporti sociali dettati dai ritmi della digitalizzazione dell'esistenza quotidiana. Sms e avatar producono linguaggi nuovi e identità artificiali, il tutto in una cornice culturale dalla quale le generazioni mature sono spesso escluse. E l'espulsione ha un tratto politico evidente: le generazioni hippie e punk dei decenni precedenti erano sostanzialmente sospettose di tutto quello che si muoveva nel mondo tecnologico. Lo giudicavano una struttura potente e determinata della società industriale che produceva consumatori, non cittadini. Erano ancora nel pieno della suggestione marxista che voleva la tecnologia produrre i tecnocrati, cioè le forze produttive connesse ai rapporti sociali di produzione. E la critica non era confinata solo al mondo vetero-marxista. Si pensi che nel 1956 Friederich Pollock prospettava la concentrazione autoritaria del potere nelle mani di un esercito di esperti, a loro volta vittime del sistema dei cervelli elettronici.5 Era il risvolto scientifico di una letteratura fantastica che amava dipingere scenari futuribili nei quali gli uomini avrebbero dovuto combattere una lotta senza quartiere contro il sistema delle macchine intelligenti. E qualche anno più tardi Herbert Marcuse - nel celebre One Dimensional Man - accusava il sistema totalitario della società industriale avanzata, nella quale la tecnologia non poteva più dirsi neutrale, ma facente parte del sistema di dominio principale. Insomma, le generazioni degli anni Sessanta e Settanta vedevano il dominio della tecnologia come un volto del male assoluto, che decretava il successo dei paesi industrializzati e la sconfitta dei paesi arretrati, perché produceva alienazione e sofferenza sociale. In tale contesto, andare contro il sistema significava soprattutto scagliarsi contro le derive della società tecnologica.

È incredibile come nell'arco di pochi anni la situazione si sia rovesciata. I giovani che rifiutavano di essere dominati dal sistema delle macchine adoperano, oggi, le tecnologie per fondare la propria supremazia sulle vecchie generazioni. A tal punto che il processo di trasmissione delle conoscenze sembra aver cambiato fisionomia e direzione. Sempre più spesso ad insegnare a «stare al mondo» - dove «il mondo» ha un profilo tecnologico elevatissimo e mutevole - sono i giovani, che con pazienza introducono i loro padri e nonni all'avventura tecnologica del web e delle nuove opportunità sociali offerte dall'era digitale. L'orda barbara, per continuare a prendere in prestito l'espressione parsonsiana, è costituita oggi non dai nuovi arrivati, ma da tutti quelli che per cause anagrafiche non riescono a prendere confidenza col cellulare, con la posta elettronica, col navigatore satellitare, con la domotica. Il problema sta assumendo una dimensione notevole in campo professionale, nel quale è in atto un inarrestabile processo di invecchiamento precoce per alcune figure tecniche e per alcuni livelli manageriali. Il mondo hi-tech richiede skills, know-how, performances, per usare il linguaggio in voga in quegli ambienti, continuamente aggiornati, e in convulsa evoluzione.

In senso più ampio, la nuova cultura che si sta definendo è quella cyberpunk. Esso nasce dal matrimonio fra il mondo del dissenso più o meno organizzato e le nuove capacità d'interazione sociale prodotte dall'innovazione tecnologica. Per capire quali scenari prefigura il cyberpunk, dobbiamo innanzitutto abbandonare l'immagine familiare del mondo storico come di un luogo nel quale gli attori sociali interagiscono e col tempo istituzionalizzano la propria azione, producendo le strutture sociali e politiche conosciute. Bisogna pensare al mondo come a un globale sistema nervoso, inestricabilmente connesso, nel quale le reti neurali disporranno della risorsa più pregiata: l'informazione. Attenzione a giocare con la metafora: la concezione cyberpunk pensa che questo globale sistema nervoso non sia un elemento esterno alla capacità sensibile e intellettuale umana. Interno ed esterno, come categorie immanenti, devono essere aggiornate. Nel cyberpunk, questo sistema nervoso globale è, al tempo stesso, parte del nostro sistema nervoso biologico. Esso riconfigura la nostra stessa soggettività e il nostro sistema pubblico. Lo spazio vitale sarà la rete, sarà matrix. E l'uomo di domani - un domani già alle porte, a dire il vero - ingaggerà le sue fondamentali battaglie di libertà contro coloro che opporranno recinti arbitrari, od ostacoli ingiustificati, al nostro spazio vitale fondamentale. Libertà di circolazione, libertà d'interazione, no ai monopoli nell'informazione,pdf decentramento e democratizzazione delle risorse tecnologiche per delle relazioni sociali diffusive e universali: questi saranno gli slogans che muoveranno i cittadini della società del prossimo futuro alla partecipazione politica.

Al di là delle suggestioni futurologiche, è tempo di aggiornare la riflessione e l'agenda politica. Dopo la libertà degli antichi e quella dei moderni - così come la letteratura politica ci ha mostrato da Constant in poi - ci aspettano nuove forme di ricostruzione del processo politico, nelle quali il diritto di ciascuno di essere parte viva e sensibile del sistema mondo (così come oggi è invocato dalla giovane cultura cyber) sarà al servizio di una umanità alla ricerca della piena comunione.

 

NOTE:

1 A. SCHOPENHAUER, Sämtliche Werke, Brockhaus, Mannheim, 1988, vol. 1; tr.it., L'arte di invecchiare ovvero Senilia, Adelphi, Milano, § 6.

2 T. PARSONS, The Social System, The Free Press, New York, 1951; tr.it., Il sistema sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1996, p. 218.

3 Intervista al gruppo punk Crass, riportata - con altro materiale interessante e documentale - in F. GUGLIELMI, Punk, Apache, Pavia, 1995.

4 P. PARDO, Le controculture giovanili, Xenia, Milano, 1997, p. 8.

5 F. POLLOCK, Automation. Materien zur Beurteilung der Ökonomischen und sozialen Folgen; tr.it., Automazione. Dati per la valutazione delle conseguenze economiche e sociali, Einaudi, Torino, 1956.

 

 

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