Quale contributo può dare un antropologo ad una tema così complesso come la trasmissione dei valori tra le generazioni? Vorrei portare un contributo empirico e circoscritto, tratto da una ricerca sulle feste patronali in Alta Tuscia (un lavoro di catalogazione per conto della Regione Lazio)1 viste ed interpretate come contenitori di valori identitari ereditati generazionalmente. Questa ipotesi interpretativa formulata da E.Durkheim,2 sembra tuttora viva ed attuale. La ricerca etnografica rende visibile infatti il processo di costruzione e trasmissione di valori nell'evento festivo e patronale, mostrandone il carattere nient'affatto folklorico ed arcaico, ma aperto alla vita sociale contemporanea.
L'antropologia culturale ha dedicato importanti contributi al valore dell'identità e dell'appartenenza comunitaria e territoriale (il noi ed il locale), ad esempio con Appadurai, che sostiene che le strutture di sentimento su cui insistono le identità collettive siano costruite culturalmente e contestualizzate socialmente e vadano interpretate all'interno di definiti frame culturali, storicamente e geograficamente variabili. L'identità locale, secondo questo approccio, diviene per Appadurai (A. Appadurai 2001: 237) una «proprietà fenomenologica della vita sociale, una struttura di sentimento prodotta da particolari forme di attività intenzionale e che produce tipi peculiari di effetti materiali».3 Ugo Fabietti (1995)4 e Francesco Remotti (1996)5 aggiungono che è una costruzione in progress di attributi ritenuti propri di determinati gruppi sociali e distintivi rispetto ad altri - spesso attinti da una passato idealizzato- ai quali si attribuisce un particolare significato ed importanza nel qui ed ora contemporaneo.
Cercherò di tradurre queste formulazioni (apparentemente astratte) in concetti più vicini all'esperienza (per usare un termine che Clifford Geertz6 ha utilmente derivato dallo psicoanalista Heinz Kohut) attraverso esempi di due eventi festivi: la festa di Santa Rosa a Viterbo e la Festa della Madonna del Monte a Marta.
La Festa di Santa Rosa (candidata a patrimonio immateriale dell'umanità dall'Unesco) è caratterizzata dal trasporto della più imponente Macchina processionale esistente in Italia (c'è chi dice nel mondo): un 'campanile' di 30 metri d'altezza, pesante cinque tonnellate, trasportato a spalla da cento facchini per le vie di Viterbo in un arduo percorso di circa 1200 metri, fino alla Basilica. Sulla cima di questo pinnacolo luminoso svetta la statua della Santa viterbese. La sera del 3 settembre tutta la città dà vita a questo rito di appartenenza e di congiunzione (tra contemporaneità e passato: tradizione e cambiamento, generi e generazioni), per riconfermare una unità (religiosa, comunitaria, civica) fatalmente a rischio nel segno della fede per la Santa viterbese e della sua straordinaria capacità di unire. Non c'è scissione tra l'èlite dei facchini viterbesi che trasportano l'immane torre ed il popolo viterbese che assiste, applaude, sostiene e incoraggia, ma piuttosto fusione; e si potrebbe dire che i facchini di Santa Rosa non portano la macchina perché sono forti ma sono forti perché portano la macchina. La comunità viterbese li investe di questa forza e gli insuccessi che pesano nella storia di questo trasporto sono leggibili proprio come esito di una debole unità interna. E' questo il pericolo fatale che echeggia nell'invocazione rituale prima dell'epica impresa. "Facchini di Santa Rosa!! - chiede il capo-facchino nel momento fatale della partenza - Siete tutti d'un sentimento?". E dopo la tonante conferma dei cento facchini, dà l'ordine "Santa Rosa, avanti!!" che dà il via all'epica impresa. E' vero che il trasporto è cosa da uomini, ma è anche vero che questi uomini sono i Cavalieri di una giovane santa viterbese, figli, padri e mariti di donne viterbesi che li aspettano all'arrivo per ricoprirli di abbracci e maglioni e ricondurli al cerchio domestico e familiare. I cento facchini partecipano di molteplici network associativi, familiari e generazionali. Includono avvocati, medici e trasportatori, operai e artigiani, figli, zii e padri, tutti uniti sotto la Macchina a scongiurare l'insano pericolo di una divisione sociale che già percorre il quotidiano, ma questa sera no: stasera vince l'unione, quella stessa che la patrona viterbese (piccola, inerme, fragile) a soli tredici anni attivamente costruiva contro Federico II, potente, straniero ed invasore. Questo scenario mitico-rituale, ogni anno concorre a ricreare quell'atmosfera speciale, di fermento che si sente nell'aria. La presenza della protettrice, là in alto, sopra i tetti, sull'alto pinnacolo emblema di Viterbo (città delle Cento Torri e delle Cento Fontane) rende lieve l'immane torre e compie il miracolo del superamento dalla pesantezza, delle resistenze, dei conflitti, delle tensioni. La festa pur mostrando un impianto apparentemente laico è tuttavia intesa a riunire religiosamente una città. Sono molti i facchini imparentati tra loro presenti sotto la macchina, fino a ricostruire intere genealogie di viterbesi. Moltissimi facchini anziani esprimono l'ultima volontà di essere sepolti con la loro candida divisa, lasciandone un'altra per i nipoti che dovessero sentire un giorno la missione del trasporto. La divisa bianca accomuna così vivi e morti, amici e parenti, generazioni e generi (passa infatti anche attraverso i matrimoni da una famiglia all'altra): è una catena simbolica intergenerazionale che trasmette, insieme a quell'abito bianco, anche un corpo di valori condivisi di padre in figlio, di nonno in nipote, da suocero a genero, da zio a nipote e da cugino a cugino. La trasmissione è precoce: avviene senza bisogno di parole ed insegnamenti, per via immediata e vissuta, come nel caso dei neonati vestiti da facchini, quella giornata del tre settembre, in braccio a mamme od a papà (quest'anno ho visto anche bambine : verso un superamento della frontiera del genere?). Se questa festa si perpetua, secondo la teoria durkheimiana, vuol dire che conserva e trasmette efficacemente il sentimento della viterbesità; ma in che consiste? Le storie raccolte la declinano empiricamente in (almeno) tre valori: la fede per la Santa (il valore dell'affidamento religioso); il trasporto (il valore del lavoro, della forza, del sacrificio) e la festa viterbese (il valore dell'unità civica). E' questo complesso valoriale integrato che costruisce la viterbesità celebrata nella festa patronale che riconferma l'appartenenza (un valore universale) nella sua forma locale. Nel caso viterbese è il trasporto della macchina, evento critico e fatale mai garantito ed esposto al rischio ed all'incertezza la forma locale di rappresentare l'appartenenza. Questo rischio superato, quest'impresa riuscita, riconfermano ogni anno l'identità viterbese. L'ethos locale attribuisce questo 'miracolo' al patrocinio di Santa Rosa. Ma anche i viterbesi trasmettono attivamente questo sentimento civico e religioso insieme. In un certo periodo storico ci sono stati problemi di reclutamento di facchini. Mancavano forse braccia e vocazioni? No, era piuttosto cambiato il clima culturale. I genitori si auguravano che il figlio non facesse il facchino perché sarebbe stato un faticatore: sotto la macchina infatti c'erano allora spaccapietre, taglialegna, contadini, camionisti, trasportatori: gente di forza e di fatica. La tensione a dare un futuro migliore al propri figli mal si coniugava con la figura del facchino. In questo clima accadde il "fermo" del 1967: la più grande e la più bella macchina mai costruita fino ad allora si fermò a metà percorso, evitando per poco di cadere sulla folla viterbese. Varie, diverse, e complesse le cause, che esulano da questo contributo. Più interessante invece fu il fatto che quell'evento critico mobilitò energie, riflessioni, impegno e motivazioni sociali al riscatto di un'unità comunitaria in crisi e della sua tradizione più sentita. L'anno successivo i facchini tornarono in forza: il trasporto fu straordinario: Volo d'Angeli (era il nome della "macchina") ebbe il suo trionfo e segnò la nuova tradizione delle macchine moderne di Santa Rosa (più alte, più belle, più spettacolari). Da allora, a Viterbo le vocazioni non sono più mancate grazie anche ad una tradizione spontanea. Prima della festa di Santa Rosa, nei quartieri i bambini costruivano delle macchine in miniatura con cartoni, scatoloni, sedie, imitando il trasporto per le vie del quartiere, sotto gli sguardi compiaciuti e partecipi di genitori ed adulti che spesso sponsorizzavano il gioco donando materiali di fortuna. Dal 1966, questo gioco spontaneo divenne tradizione con l'istituzionalizzazione delle minimacchine di cartapesta e legno, trasportate da bambini vestiti da facchini, prima del 3 settembre. La tradizione delle mini-macchine, che conta ormai quasi mezzo secolo, ci dice che il sentimento identitario ed i contenuti valoriali che lo sottendono si costruiscono precocemente ampliando i modi della trasmissione e moltiplicandone le forme. E soprattutto, offrendo alle nuove generazioni un orizzonte di identificazioni e protagonismi individuali inscritti in cornici festive che motivano al vivere sociale, coniugano ed equilibrano bisogni personali e sociali. Cosa ha contribuito a questo successo? Soltanto i valori fondanti di forza, devozione ed unità? Gli stessi viterbesi non mancano di sottolineare che questi valori convivono (senza contraddizione) con altri, fatalmente legati alla contemporaneità. Ad esempio il protagonismo eroico che ogni facchino vive quella sera (anche grazie alla grande attenzione mediatica) nonché il prestigio e l'orgoglio di appartenere ad una èlite locale, una associazione potente ed unita. Entrambe queste cose danno risposta al bisogno di straordinario dei giovani ed al bisogno di appartenenza ad un gruppo coeso. Un contesto più ampio e complesso, dunque, concorre a trasmettere ed integrare valori fuori commercio (o se volete, tradizionali) con valori più attuali e trendy, in un composito mix che dà continuità alla festa, la congiunge ai grandi flussi culturali contemporanei.
Sempre nel viterbese, per restare in quest'ambito di ricerca, esiste una festa mariana nota come il Pellegrinaggio alla Madonna del Monte, a Marta, sul lago di Bolsena, che si svolge il 14 maggio. Prevede una sfilata di carri e di figuranti (tutti maschi) vestiti con i classici panni delle antiche categorie sociali locali: casenghi (aiutanti-fattori a cavallo); falciatori, vignaiuoli, zappatori, bifolchi e pescatori, che portano con sé, sui loro carri addobbati di attrezzi del mestiere e prodotti della terra e del lago, da offrire alla Madonna come primizie benaugurali, anche i loro figli, spesso neonati tenuti in braccio. L'iscrizione dei giovani maschi alle rispettive associazioni di categoria è contestuale alla nascita: come una registrazione anagrafica. Ed un informatore mi ha detto con orgoglio di aver iscritto e portato suo figlio, di pochi giorni, al suo primo Pellegrinaggio alla Madonna del Monte. La precocità di partecipazione è una delle cause (ed effetto insieme) del radicamento delle nuove generazioni alla tradizione locale; tuttavia non basta a scongiurare il rischio di una crisi della tradizione stessa e, con essa, dei valori di appartenenza locale. L'appartenenza alle categorie era un tempo rigida ed esclusiva: trasmessa per ereditarietà da padre in figlio. I pescatori ad esempio, erano esclusi. Anche a Marta però, il rischio di una troppo rigida tradizionalizzazione è stata scongiurata aprendo varchi nella struttura rituale. Le appartenenze sono state democratizzate consentendo scelte e negoziazioni peraltro fatali per il cambiamento sociale intervenuto: impiegati di banca vestono oggi i panni dei casenghi (purché abbiano un cavallo); medici e impiegati quelli dei pescatori oppure dei bifolchi, a secondo della linea familiare più forte o più sentita (materna, paterna) o anche acquisita. La possibilità di scegliere l'affiliazione, il vestito, la partecipazione erano un tempo una eresia. Oggi si rivela una scelta vincente per la continuità festiva e per la riaffermazione dei valori locali (l'aggregazione, la solidarietà, la partecipazione alla vita comunitaria).
Queste minuterie etnografiche mostrano che la tradizione si mantiene proprio trasmettendo valori sociali universali (la fede religiosa, l'impegno nella vita e nel lavoro, l'unione e la solidarietà sociale) in modi locali e, soprattutto, conciliati con la contemporaneità. Viceversa quando la tradizione locale perde contatto con il più ampio contesto e con i flussi culturali contemporanei può scadere nel localismo (cioè una esasperata celebrazione di specificità anche inventate). Oppure, al contrario, quando è fagocitata dall'attualità (che è cosa diversa dalla contemporaneità) sino a smarrire la propria specificità, allora i valori possono trasformarsi in contenitori di emozioni superficiali o private, spesso dirottate a vantaggio di un io (o un noi egoistico e chiuso) che cerca compensazioni e gratificazioni ad una crescente solitudine.
Christopher Lasch,7 ha mostrato come il narcisismo dilagante del mondo contemporaneo, eleggendo il Sé a proprio dio, denunci tragicamente la crisi delle visioni del mondo (E. Schultz e R.Lavenda, 2010)8 post-moderne e, con esse, del valore sociale stesso come bene comune, trasformato in un bene particolare, ego-centrato. Questa deriva narcisistica è pessimistica verso ogni orizzonte valoriale collettivo e comune e coltiva valori e bisogni individualistici aprendo scenari di un'antropologia della solitudine (Marc Augè, 2009).9 Può essere utile, allora, attingere alla saggezza culturale tradizionale e popolare (non solo del passato, ma dell'oggi) per ritrovare forme e modi di conservazione e trasmissione creativa di valori strategici per il vivere sociale (la fede, l'impegno nella vita sociale, la solidarietà), ad esempio anche nelle feste patronali e comunitarie, o nei riti e nelle cerimonie religiose e civili; cioè in quegli spazi pubblici e condivisi che danno loro rappresentazione ed esistenza simbolica, effimera, ma costantemente riconfermata. Certamente questa rappresentazione (festiva, rituale) non è priva di conflitti: i valori vivono di combattute negoziazioni (come di impreviste sinergie) con la cultura mainstream del nostro tempo; ma mai senza la nostra attiva e creativa partecipazione che li fà diventare vivi e reali.
NOTE:
1 A. Riccio, 'Protettori della Tuscia, uniteci!' Un contributo etnografico al culto dei santi patroni viterbesi, saggio introduttivo al volume: "I Santi Patroni del Lazio. La provincia di Viterbo, Tomo I", a cura di Sofia Boesch Gajano, Letizia Ermini Pani, Roma, 2008.
2 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Roma, Newton Compton, 1972; La divisione del lavoro sociale, Roma, Newton Compton, 1972.
3 A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2001:237.
4 Ugo Fabietti, L'identità etnica, storia e critica di un concetto equivoco, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995.
5 Francesco Remotti, Contro l'identità, Laterza, Bari, 1996.
6 C. Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna, il Mulino, 1988:73.
7 Cristopher Nash, La cultura del narcisismo, Milano Bompiani 1981.
8 Schultz, E e Lavenda, R., Antropologia Culturale, Zanichelli, Milano, 2010.
9 Augè, Marc, Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009.
Bibliografia
Augè, M., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009.
Appadurai, A., Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi, Roma 2001.
Durkheim, E., Le forme elementari della vita religiosa, Roma, Newton Compton, 1972.
Id., La divisione del lavoro sociale, Roma, Newton Compton, 1972.
Fabietti, U., L'identità etnica, storia e critica di un concetto equivoco, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995.
Geertz, C., Antropologia interpretativa, Bologna, il Mulino, 1988.
Lash. L, La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani 1981.
Remotti F., Contro l'identità, Laterza, Bari, 1996.
Riccio, A., 'Protettori della Tuscia, uniteci!' Un contributo etnografico al culto dei santi patroni viterbesi, saggio introduttivo al volume: "I Santi Patroni del Lazio. La provincia di Viterbo, Tomo I", a cura di Sofia Boesch Gajano, Letizia Ermini Pani, Roma, 2008.
Schultz, E. e Lavenda, R., Antropologia Culturale, Zanichelli, Milano, 2010.