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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

 

pdfCome noto, dall’estate del 2007, sia nei paesi industrializzati, sia - di riflesso – in quelli “in via di sviluppo”, l’economia è stata investita da una grave crisi, prima finanziaria, poi anche in ambito reale, mentre sono stati risparmiati soltanto i paesi “in via di forte industrializzazione”, vale a dire il gruppo di paesi detti, in acronimo, BRIC (Brasile, Russia, India, Cina).

Solo per dare un’idea delle dimensioni della crisi, con riferimento all’intero sistema mondiale, si consideri che, tra il marzo del 2007, quando la crisi recessiva ha avuto inizio, al settembre del 2009 - quando si suppone che essa, poi chiamata Grande Recessione, sia terminata (ma, a mio avviso, è così solo temporaneamente, anche se non c’è qui spazio per “argomentare” tale tesi) -, si sono avute perdite, sui mercati finanziari, stimate in ben 4.1 trilioni di dollari USA.

Quanto alle cause, remote e prossime, della crisi, facendo un “passo indietro”, occorre riandare col pensiero alla precedente grave crisi finanziaria ed economica mondiale, quella degli anni ’30 del secolo XX, cominciata negli USA con il celebre “tonfo” alla Borsa di New York dell’autunno 1929 (il venerdì “nero”, 24 ottobre), diffusasi poi in tutti i paesi industrializzati, nonché risultata essere particolarmente acuta in Germania tanto da portare al potere il nazismo, e protrattasi fino ad oltre la metà degli anni ‘30.

Teoricamente, si sono confrontate, già in quel caso, due visioni alternative della crisi economica, così come è stato il caso per le misure di politica economica per superarla. Si è, infatti, distinto sin da allora, con specifico fondamento analitico, fra le spiegazioni “di destra” e quelle “di sinistra”, largamente coincidenti, rispettivamente, con quelle di tipo monetario e quelle di tipo reale. Secondo le prime, sostenute, in particolare, dall’economista monetarista M. Friedman, le cause della crisi andavano ricercate negli eccessi avutisi nella politica monetaria, dunque negli andamenti dell’offerta di moneta, che avevano portato al verificarsi di una “bolla speculativa” in Borsa, la quale però – pur durando tutti gli anni ‘20 – non poteva non “sgonfiarsi”, cosa verificatasi, però, in modo “catastrofico”, appunto, il venerdì “nero”. Allora, quegli eccessi avrebbero dovuto essere colmati con interventi, in diminuzione, di politica monetaria, tali da portare alla “normalizzazione” dell’andamento dei prezzi e rimettere in moto la ripresa e, a seguire, la crescita dell’economia. In base alle seconde, sostenute, in alternativa, dal grande economista “innovatore” J. M. Keynes nella “rivoluzionaria” opera del 1936 (La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta) e dai suoi continuatori, le cause della crisi andavano, invece e soprattutto, ricercate nelle carenze registratesi nella domanda di beni reali, che si sarebbero determinate proprio al venir meno della “bolla speculativa” di Borsa, la quale – prima o poi – non poteva non “sgonfiarsi”, magari in modo “catastrofico”. Allora, quelle carenze dovevano essere “colmate” con interventi, in aumento, di politica fiscale, tali da portare all’aumento della domanda reale di beni e, così, rimettere in moto la ripresa e, a seguire, la crescita dell’economia.

Come si comprende, molte contrapposizioni di allora, fra l’impostazione monetarista, o di tipo “neoclassico”, e quella keynesiana, o di tipo “classico”, anticipavano, per così dire, quelle presenti, di cui a questo punto occorre passare a dire.

Intanto, va precisato che, dopo la grande crisi del 1929 e dei primi anni ’30, su iniziativa del presidente F. D. Roosevelt, era stato approvato dal Parlamento statunitense nel 1933, nell’ambito del grandioso programma di interventi coordinati di politica economica cui venne dato il nome di New Deal, una fondamentale legge in materia monetaria-finanziaria, il Glass-Steagall Act, che disciplinava la specifica separazione – ciò che non era prima – tra il credito a breve termine, erogato dalle banche di credito commerciale o “ordinario”, ed il credito a medio e lungo termine, erogato dalle banche di credito “speciale”. Come noto, provvedimenti analoghi venivano varati in tutta Europa, ed anche in Italia, dove, in particolare, a metà degli anni ’30, nacquero l’IRI e l’IMI, mentre su basi simili – anzi più ampie – fu approvata la Legge bancaria del 1936.

Come si afferma, nell’Introduzione al Simposio, da parte dei curatori G. Fontana e R. Realfonzo, senza tuttavia potere qui entrare in dettagli, va sottolineato che, essendo stati adottati ed applicati negli anni ’80 in tutti i paesi industrializzati, e soprattutto nel Regno Unito (UK) dal Premier Sig.ra Thatcher e negli USA dal Presidente Reagan, provvedimenti liberisti, le cose sono andate avanti “bene” per un certo periodo di tempo, in realtà fino agli anni ’90 del 1900 ed un po’ oltre. Allora, a cominciare dal cosiddetto Big Bang del 1986 in UK, si sono affermate in entrambi quei paesi, e si sono diffuse in molti altri paesi industrializzati, ma - si noti - molto meno in Italia, un numero crescente di liberalizzazioni finanziarie, che sono proseguite e sono state ampliate da parte dei governi susseguitisi nella maggior parte dei paesi ed in particolare negli USA, negli anni “a cavallo” tra i due secoli, fino agli ultimi mesi dell’amministrazione del presidente G.W. Bush, cioè poco prima della Grande Recessione.

Non solo, ma nel clima generalizzato di quelle liberalizzazioni finanziarie hanno preso piede, soprattutto, ancora, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la “produzione” e la “vendita” di tutta una serie, per dirla all’italiana, di nuovi titoli di credito, che, nel linguaggio tipico dei paesi anglosassoni, sono stati chiamati titoli o strumenti finanziari strutturati, compositi, o anche sintetici. Si è trattato di strumenti finanziari - “prodotti” e “venduti”, soprattutto, dalle grandi banche americane e inglesi - ottenuti, “partendo” da crediti, o perfino da debiti “accesi”, spesso, da persone o famiglie che, pur non fornendo “adeguate” garanzie (infatti, si parlava di mutui sub-prime), s’indebitavano per comprare casa, “contando” di ripagare i prestiti tramite adeguate rateazioni, “fidando” su un’economia in crescita e su posti di lavoro similmente crescenti.

Ma era chiaro a taluni economisti – purtroppo pochi! – che si stava, via via, dando luogo ad una vera e propria “bolla speculativa” che, prima o poi, non poteva non “esplodere”.

In effetti, è seguito che, una volta contrattati i prestiti, le banche non conservavano i crediti (cui corrispondevano i debiti delle persone o famiglie) nei propri portafogli nella forma dei titoli contrattati; bensì, come si dice, li manipolavano in vario modo, creando e vendendo titoli derivati, in particolare titoli compositi o strutturati, al fine di “diluire” il rischio di credito e “scaricarlo” dai venditori ai compratori. Non solo, ma ciò veniva ripetuto più volte, procedendo a creare e diffondere titoli sempre più “lontani” da quelli originari e sempre più rischiosi, ma – come si comprende – il rischio veniva a gravare sempre più sui compratori di quei titoli, invece che sulle banche emittenti. Si sono così create varie e complesse tipologie di tali titoli strutturati o compositi, sempre più lontani da quelli originari e sempre più “diluiti” rispetto ai prestiti, ed ancor più rispetto alle necessità reali, “di partenza”.
In particolare, si sono diffuse attività strutturate quali, dette in inglese, le principali seguenti: i Collateralised Debt Obligations (CDOs), cioè titoli basati su “miscele” di prestiti ipotecari poco affidabili (subprime mortgages); gli Asset Baked Securities (ABS), cioè prestiti bancari “impacchettati” e venduti ad altre banche; gli Structural Investment Vehicles (SIVs), cioè strutture bancarie, di piccole dimensioni, abilitate ad effettuare prestiti cosiddetti over the counter, cioè contrattati “al di fuori” delle usuali norme del mercato “regolato” e, perciò, su basi specificatamente rischiose; e così via.

E’ chiaro che tale “esplosione” di titoli di credito compositi, strumenti finanziari derivati (e derivati da derivati), strutture bancarie improvvisate, nonché “fondi d’investimento” di vario tipo, in gran parte speculativi, poteva durare finché, e nella misura in cui, i debitori “originari” sarebbero stati in grado di saldare i propri debiti (per capitale ed interessi), in quanto continuassero ad avere un posto di lavoro sicuro e ricevere un regolare compenso. Ma, tra il 2006 e il 2007, l’economia americana entrava in crisi recessiva, le vendite scarseggiavano, le imprese iniziavano a licenziare lavoratori e un numero via via crescente di debitori di tipo sub-prime diventava incapace di ripagare i prestiti; così che le banche inizialmente “esposte” con essi diventavano, a loro volta, incapaci di pagare interessi sui vari tipi di strumenti “manipolati” emessi e, alla bisogna, di restituire i capitali richiesti; il che si ripercuoteva, man mano, “a cascata”, su altre banche, su fiduciarie, “fondi d’investimento”, e così via.

Allora, la situazione diventava così preoccupante che, nella stessa amministrazione (repubblicana) del presidente G. W. Bush, ed in particolare, nel tandem costituito dal Ministro del Tesoro, Henry Paulson, e dal Presidente della FED, la Banca Centrale statunitense, Ben Bernanke, si decise di procedere con una serie di interventi abbastanza “inusuali” per l’impostazione liberista fino ad allora perseguita, in USA, dalla politica economica e finanziaria, trattandosi di misure di politica monetaria, di tipo nient’affatto keynesiano, del tutto “inappropriate”, data la crisi in atto. Pertanto, un keynesiano convinto come lo scrivente, ben lontano da un’impostazione di tipo liberista, non può non sottolineare l’inefficacia di interventi come quelli effettuati.

In effetti, i principali interventi di politica economica effettuati riguardavano la politica monetaria e comprendevano le seguenti misure: il tasso ufficiale di sconto (di competenza governativa) ed il tasso d’interesse a breve termine (supervisionato dalla FED) furono subito e sostanzialmente ridotti, raggiungendo un intervallo fra zero e lo 0,25%; quanto al tasso d’interesse a medio-lungo termine, la FED annunciò che il tasso interbancario futuro sarebbe stato mantenuto prossimo allo zero per un lungo periodo di tempo; d’altro canto, mentre (si noti) la grande banca d’affari Lehman Brothers fu lasciata fallire, la FED procedette ad un’immissione di liquidità nel sistema senza precedenti, soprattutto tramite apporti diretti al capitale liquido di alcune grandi banche nella forma di acquisti di enormi quantità di titoli (obbligazioni) di loro emissione, con l’intento peraltro che si sarebbe trattato di manovra temporanea. Keynesianamente, non si poteva non obiettare che quella grande immissione di liquidità sarebbe stata “assorbita” nei diversi portafogli e, dunque, non avrebbe avuto alcun effetto in termini di soluzione della crisi finanziaria.

Insomma, si comprende come tutte le (rilevanti) misure adottate, essendosi concentrate sulla politica monetaria, non determinarono quel “ribaltamento” della situazione complessiva nel sistema finanziario americano che le Autorità si proponevano di conseguire; né sorte “migliore” arrise al sistema finanziario britannico, dove furono fatti interventi simili.

A mio parere, molto di più, sia sul fronte fiscale, sia, ed in particolare, su quello finanziario (cioè, quanto alla regolamentazione del tipo e della quantità dei titoli “in circolazione”) si doveva fare, come poi farà in USA il successivo presidente, democratico, Obama. Ma questo punto è “al di là” del discorso concernente i saggi del Simposio considerato.

Il “piatto forte” nel Simposio è rappresentato dal saggio introduttivo di G. Fontana e R. Realfonzo, saggio nel quale i due autori sostengono, convincentemente, la tesi che l’estate del 2007 ha rappresentato un momento cruciale di “passaggio” nella storia economica della maggior parte dei paesi industrializzati. In effetti, mentre si temeva che ci si stava “incamminando” verso una nuova Grande Depressione, come quella degli anni ’30 del secolo XX, tanto è stato evitato, grazie allo sforzo coordinato delle politiche economiche largamente perseguite, e tuttavia le conseguenze reali della grave crisi finanziaria degli anni 2007-09 non sono state affatto superate. Siamo cioè ancora in presenza di una vera e propria Grande Recessione.

Personalmente, mentre concordo su ciò, ritengo anzi che gli andamenti recessivi nella maggior parte dei paesi (ad eccezione, almeno per ora, a fine 2011, dei paesi del gruppo BRIC) non saranno superati per alcuni anni; e ciò, in quanto – seguendo in proposito le analisi di un altro grande economista, insieme a Keynes, del secolo scorso, J. Schumpeter (nel monumentale lavoro in merito, in due volumi, del 1939) – ho una visione ciclica, o meglio di crescita ciclica, degli andamenti delle economie capitalistiche, anzi di qualsiasi economia.

D’altro canto - mi sia consentito aggiungere - le cose non sono sostanzialmente mutate, negli anni dal 2007 ad oggi, come andamenti di trend, mentre sul piano congiunturale si sono registrati, in tutti i paesi industrializzati, “alti” e “bassi”, cosicché risulterebbe avere avuto conferma l’ipotesi cui ho appena accennato.

In poche parole, prendendo il caso degli USA come emblematico, si vede in particolare che il tasso di disoccupazione è rimasto molto alto, in media intorno al 9 %, mentre è diventato “preoccupante” il deficit della loro bilancia dei pagamenti con l’estero, tale che solo il sostegno della Cina con un consistente afflusso di capitali riesce ormai a “far quadrare i conti”. Non parlo peraltro dell’Italia, i cui conti “in rosso”, come noto, sono purtroppo da un bel po’ “al centro” dell’attenzione e della preoccupazione di osservatori e cittadini.

Tornando al Simposio, senza potere qui entrare in una specifica analisi dei diversi saggi, intanto va detto che, nella stessa Introduzione dei due curatori, s’insiste sul fatto che, a fronte dei massicci interventi di politica monetaria, ed a volte, come nel caso degli USA del presidente Obama, anche di politica fiscale, si è avuta una certa ripresa in tutti i paesi industrializzati (ma non in Italia!), ma a questa è seguita un’ulteriore stagnazione. Si è allora parlato di “dual-dip recession”, vale a dire di una sorta di “recessione a due cadute”. Francamente, non si può non parlare di un andamento ormai ciclico delle economie industrializzate, anzi, personalmente ritengo che tale - più o meno accentuata - ciclicità durerà ancora per qualche anno (forse, fino al 2017, cioè per almeno un decennio dopo il 2007).

Va da sé che tutti i saggi perseguono un’impostazione teorica di tipo classico-keynesiano: così, si va dal saggio di Arestis-Karakitsos in tema di “Implicazioni della crisi finanziaria e delle misure prese per regolarla”, a quello di Brancaccio-Fontana in tema di “Valutazione critica della politica monetaria portata avanti da Greenspan a capo della FED”, a quello di M. Sawyer in tema di “Prospettive della crisi e della recessione formulate su basi pot-keynesiane”, a quello di A. Ross in tema di “Teorie economiche e politiche economiche alternative nel Regno Unito sulla crisi a confronto”. “Concentrandosi” qui, emblematicamente, sul solo saggio di Brancaccio-Fontana, esso analizza “pro” e “contro” della tesi che la causa di fondo della crisi sia stata la politica monetaria accomodante della FED di Greenspan, allargandola, però, all’analisi della politica monetaria in tutte le economie industrializzate moderne, politica portata avanti in tutte sulla base dello schema teorico di riferimento costituito dal cosiddetto Nuovo Consenso nella Macroeconomia (nell’acronimo inglese, NCM). La conclusione del saggio, molto critico su tale schema, è che, comunque, c’è poca evidenza empirica sul punto che negli USA - l’epicentro della crisi - sia stata la conduzione della politica monetaria la sua causa fondamentale. E ciò, a mio parere, anche se gli autori non lo dicono, non può non condurre a “rivalutare” il ruolo di base nella crisi svolto dalle oscillazioni tipiche di ogni economia industrializzata.

In effetti, dopo avere riconsiderato i dati sugli andamenti della disoccupazione negli USA, come già fatto in sede introduttiva (il tasso di disoccupazione è aumentato dal 4,7% nel quarto trimestre del 2007 al 9.2% nel secondo trimestre del 2009), nonché considerato il massiccio ricorso a misure d’intervento monetarie e fiscali, al fine di contenere gli effetti più deleteri della crisi finanziaria e della “collegata” recessione, nel saggio si sottolinea, validamente, che la debolezza generalizzata della domanda reale aggregata è continuata durante l’intero anno 2009 ed oltre. Allora, che fare? Alla “fatidica” domanda, la risposta degli autori è stata che occorre procedere a sostanziali misure di re-distribuzione del reddito, dai più ricchi ai più poveri, onde aumentare sostanzialmente i consumi, quindi le vendite, e così la produzione, l’occupazione e la ripresa.

Personalmente, però, sono convinto che tali misure siano necessarie, ma non sufficienti, per una stabile ripresa delle economie industrializzate oggi. Serve, allora, per così dire, “combinare” un approccio alla Keynes con unopdf alla Kalecki. In effetti, M. Kalecki, ancora un altro importante studioso degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, pubblicò, in contemporanea con i lavori del Keynes, numerosi saggi in cui elaborò un modello “congiunto” per il breve ed il medio-lungo periodo. In particolare, secondo le sue posizioni, non si può mai tralasciare di considerare che le imprese, per investire, occupare lavoro e produrre, necessitano di vendere, certo, ma con l’obiettivo di guadagnare un certo profitto. Allora, sempre, un’economia si muoverà, per così dire, su “un crinale”, che non può non essere equilibrato tra salari e profitti; il che, in carenza dei mercati, richiede che si perseguano politiche economiche sia di tipo re-distributivo, sia anche di incentivi alle imprese perché investano, producano, vendano e guadagnino, cosicché adeguino la domanda di lavoro all’offerta, quindi alla disponibilità dei tanti lavoratori ad occuparsi. 

 

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