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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Quale può essere l’atteggiamento di un economista di formazione keynesiana ed eticamente motivato, come lo scrivente, di fronte ad un testo di "Etica economica" quale quello di un teologo domenicano dotato di solidi studi economici come lo Utz? La risposta non è facile; ma cercherò comunque di esprimere apertamente la mia opinione che, detta in estrema sintesi, è di sincero apprezzamento per il lavoro inteso nella sua interezza, mentre non posso non formulare riserve sul modo in cui l’autore si pone con riferimento alla teoria economica keynesiana vis---vis altri paradigmi della scienza economica, come in particolare il paradigma neoclassico.

Comincio col dire che va particolarmente apprezzata la posizione utziana quanto al modo d’intendere l’economia, o meglio la teoria economica, come scienza, vale a dire come un corpo di proposizioni intorno ad un certo campo della realtà umana: proposizioni che, partendo da una certa visione del mondo, si ottengono come soluzione di un certo modello di realtà economica e possono - anzi devono - essere sottoposte sia a valutazione morale sia a riscontro empirico al fine di fornire indicazioni normative e prescrittive per guidare e modificare la realtà stessa. Si comprende come da ciò segua quella che si pub chiamare l’epistemologia utziana, che è poi sostanzialmente quella tomista cioè, direi, di tutti i teologi morali di orientamento tomista che si occupano di scienze sociali e (forse) di ogni scienza, vale a dire l’adesione ad "un’etica finalistica fondata ontologicamente" (Etica economica, p.11). Allora, nelle parole dello Utz, "Il filosofo scandaglierà più a fondo di chi ha un punto di vista puramente empirico [si potrebbe anche dire, puramente teoretico], perché porrà ... [le convinzioni dell’economista] nel quadro della natura sociale dell’uomo" (p.12).

Essenzialmente, sottolinea ancora l’autore, l’idea è che una decisione "viene intrapresa dal singolo sempre in accordo con la sua percezione dei valori ed è espressione della libertà di coscienza. Nella concezione cattolica l’azione morale non è mai stata ritenuta qualcosa di diverso da ciò. Giacché però secondo la visione giusnaturalistica cattolica l’oggetto dev’essere l’elemento determinante della scelta, dato che la libertà è inserita in una capacità desiderativa che fa essenzialmente parte della natura dell’uomo e dunque può essere adoperata sensatamente solo per il perfezionamento di questa natura, ciò che soprattutto importa è offrire alla volontà un oggetto conforme alla natura. La volontà deve dunque motivare la ragione, cercare quell’oggetto che è giustificato per la sua realtà, e l’oggetto è un elemento autenticamente etico allo stesso titolo della ragione stessa. La libertà di coscienza in una considerazione etica è insomma vincolata all’oggetto" (p. 63). E conclude: "Il nucleo della dottrina cattolica del diritto naturale è la convinzione che la ragione pratica non ha perduto con il peccato originale la sua capacità naturale di conoscere norme di comportamento universalmente valide e dunque di stabilire principi di comportamento, cosicché l’unità di fede e ragione è mantenuta" (p. 68).

Quanto a quella che Utz chiama "l’articolazione dell’etica dell’economia", va specificatamente condivisa la tesi che questa segue esattamente la concezione filosofico-sociale che si presuppone; e allora troviamo la fondamentale distinzione tra: 1) quella dell’individualismo e 2) quella della teoria sociale che muove dal bene comune inteso in senso metafisico (p. 76).

Mi sia consentito sottolineare il fatto che tale distinzione corrisponde bene a quella che personalmente (cfr. F. Marzano, 1998) ho proposto fra teorie economiche chiuse (tipicamente, la teoria neoclassica) e teorie aperte (la teoria classica, quella keynesiana, e soprattutto la cosiddetta economia al servizio dell’uomo); e ciò in quanto una teoria chiusa trova nel postulato individualistico dell’homo oeconomicus la base per una visione totalizzante dell’economia, mentre una teoria aperta riprende dal suo esterno uno o più postulati fondanti. In particolare, emerge la posizione della economia al servizio dell’uomo che, rifacendosi al bene comune della morale sociale cristiana quale punto di partenza dell’articolazione della propria visione dell’economia, si contrappone nettamente al paradigma dell’homo oeconomicus della visione neoclassica e delle sue varie articolazioni (in proposito Utz cita Weber e Marshall, contrapponendo loro espressamente, ma senza approfondire il punto, lo studioso che è stato il massimo rappresentante della scuola italiana della "economia al servizio dell’uomo", F. Vito, (196712), p. 21, nn. 5 e 6).

Il fatto è che, nelle parole dell’autore, "l’economia di mercato nasconde ... in sé il pericolo dell’economizzazione della società, il quale comunque sussiste finché i valori ultimi vengano esclusi dalla razionalità finalistica e sia così ostacolata una concezione organica della società, in cui valori ultimi e principio economico siano integrati in una razionalità finalistica unitaria" (p. 88). Inoltre, egli continua, "Con il concetto di "fine determinato dalla visione del mondo" non bisogna affatto pensare a un fine religioso, ma a qualsivoglia fine posto in maniera assoluta" (p. 91). In effetti, siccome "l’economia di mercato persegue un tale assoluto nella forma di un fine materiale illimitato" ..., ci si deve rendere conto che in questo modo "l’economia di mercato diventa strumento - argomenta l’autore - di una morale-limite, contro la quale gli svantaggiati si difendono sul piano politico. Ora, dal punto di vista del fine dell’economia tutte le singole decisioni sono socialmente connesse. Dunque la singola decisione non pub essere motivata dall’egoismo". E infatti, "Per determinare il fine, la società possiede certe norme assolute date dalla natura umana" (pp. 97-8).

Sulla base dei principi fondanti di una ben condivisibile impostazione di etica economica come quella sopra sintetizzata, Utz affronta - nelle successive duecento pagine del libro - l’analisi delle principali questioni che sono specifiche dell’economica (economia politica e politica economica), cominciando da quella, oggi spesso trascurata, del "bisogno e bisogno economico" per passare ai temi cruciali dei "fattori della produzione", della "proprietà privata", dei "sistemi economici", della "domanda e offerta", de "il denaro e il credito", de "il prezzo e il giusto prezzo", della "retribuzione" e del "profitto".

Come accennavo all’inizio, non sempre mi riconosco nelle posizioni avanzate dall’autore, mentre ne condivido totalmente l’impegno, per dire, a scandagliare sempre l’aspetto che egli chiama empirico (e che, come detto, si potrebbe meglio chiamare teoretico) rispetto alla rispondenza delle conclusioni dell’analisi ai principi e criteri di etica economica sottoscritti dallo studioso.

Così, in tema di "bisogno e bisogno economico", l’autore giustamente sottolinea che "L’indagine sui bisogni umani è ... di natura filosofico-antropologica e inizia con la determinazione essenziale, cioè della natura astratta (benché reale), dell’uomo. Tramite questa norma certi bisogni possono essere designati come in sé innaturali e dunque da rigettare" (p. 100).

La sintetica trattazione svolta nel breve capitolo in argomento è interessante anche perché Utz, che si professa sostenitore della cosiddetta economia sociale di mercato, in esso inizia, per riprendere il giudizio espresso nella Prefazione all’edizione italiana da F. Compagnoni (p. 5), un dialogo intellettuale - il che sarà ripreso ed approfondito in capitoli successivi - con la posizione, che "si potrebbe denominare ... ‘economia socialista di mercato’" o anche economia di "democrazia umana" (p. 193), propria dell’uomo politico ed economista cecoslovacco Ota Šik (1979; 1987). Così come fa Šik, Utz pone a fondamento dell’attività economica i "bisogni universali umani", aggiungendo però che "Non tutti i bisogni così legittimati dal punto di vista etico possono essere soddisfatti nella società economica di volta in volta data" (p. 100).

Tuttavia, più che della distinzione, che fa l’autore, "tra bisogno economico e non economico", va detto che si tratta di quella fra bisogni paganti e cioè rilevanti sul fronte descrittivo o analitico e bisogni perseguibili sul piano normativo e, dunque, fra una posizione del tipo essere ed una del tipo dover essere: distinzione che sostanzialmente riproduce quella fra economia di mercato ed economia al servizio dell’uomo, essendo quest’ultima assai prossima (ma, forse, con qualcosa in più) alla economia sociale di mercato di Utz e degli altri, sia studiosi che politici, che si ritrovano su tale posizione. E in effetti, a mio modo di vedere, è in opposizione sia "al sistema dei bisogni collettivi determinati d’ufficio", sia a quello "diametralmente opposto ... che sceglie come principio fondamentale di un ordinamento economico la libera determinazione dei bisogni da parte degli individui" che troviamo "tutti i bisogni ... sociali come l’assicurazione dei disoccupati, la previdenza per le malattie, l’assistenza sociale" (p. 105), come pure l’assicurazione per gli incidenti sul lavoro, i bisogni ecologici, quelli culturali, ed altri ancora, che verranno più propriamente a caratterizzare un’impostazione del tipo economia al servizio dell’uomo.

Nel capitolo sui "fattori di produzione", la trattazione del lavoro si segnala per la felice combinazione dell’approfondimento analitico e del significato etico del concetto di lavoro umano, concetto che - secondo la specifica visione della morale sociale cattolica - racchiude, come noto, una dimensione ben più vasta rispetto a quella materialistica della teoria economica. Tale impostazione si vede bene, di conseguenza, nell’argomentazione utziana sulla ripartizione degli utili del lavoro, argomentazione tramite la quale "... si giunge ad alcune esigenze ... da rispettare nel sistema dell’economia di mercato: a) il riconoscimento della posizione sociale di colui che ha prodotto la prestazione lavorativa (esigenza di un compenso che basti al mantenimento della famiglia, che comunque non pub gravare sul singolo imprenditore, ma deve essere fornito da una cassa di compensazione), b) il riconoscimento dell’ipoteca sociale che grava sui mezzi di produzione (capitale) e c) soprattutto l’organizzazione partecipativa, sia macro- sia micro-economica, del processo di produzione. Tutto ciò vuol dire - è la conclusione dell’autore - abbandonare la teoria economica vetero-liberale, che vede[va] il lavoro solo sotto il suo aspetto causale di produzione di un prodotto e ne ignorava l’aspetto finalistico, cioè etico" (pp. 120-21).

D’altro canto, in tema di analisi del fattore "capitale", si pub cogliere una posizione tutto sommato datata e sostanzialmente non condivisibile; e ciò - direi - proprio in quanto lo Utz sembra non aver recepito, per dire, la lezione di Keynes (e dei suoi continuatori), restando invece legato alla trattazione neoclassica e pre-keynesiana alla Bohm-Bawerk (o altri autori consimili cui si potrebbe fare riferimento). In effetti Keynes ha, una volta per tutte, dimostrato che in un’economia capitalistica - anzi, in un’economia monetaria del mercato capitalistico, concetto questo che lo stesso Utz sembra aver recepito intieramente (cfr. le notazioni in merito di p. 125) - sono le decisioni d’investimento che contano per l’attività produttiva, l’accumulazione di capitale e la crescita del reddito, mentre le decisioni di risparmio governano l’aspetto del finanziamento degli investimenti e della produzione. Non aver assimilato e comunque non condividere questa rivoluzionaria posizione keynesiana rappresenta, a mio giudizio, un limite della complessiva trattazione utziana dell’economia di mercato, limite che tuttavia non impedisce all’autore di cogliere un punto cruciale e delicato, che magari sfugge a molti keynesiani, vale a dire il ruolo che il risparmio non pub non giocare, autonomamente, nel condizionare livello e dinamica dell’attività economica (come del resto, mi si consenta di fare un solo cenno in proposito, si sta verificando proprio ai nostri giorni, in cui perfino i potenti USA "rastrellano" risparmio mondiale che è sempre meno elevato e, quel ch’è ancora peggio, lo sottraggono ai tanti paesi poveri che ne hanno bisogno come "la manna nel deserto"!).

Quelli che possono essere considerati i capitoli centrali del libro - in tema di "proprietà privata" e "di sistemi economici" - si segnalano per l’ampiezza, la profondità e l’originalità della trattazione e vanno ben condivisi, tranne (devo ripetermi) per le parti di carattere maggiormente analitico, come i paragrafi su "Risparmio e crescita economica", pp. 209-12, e su " I difetti della definizione economico-teoretica", pp. 231-32, in cui si riprendono quegli stessi concetti relativi ai rapporti fra risparmi, investimenti, e livello e dinamica dell’attività produttiva, sui quali mi sono criticamente intrattenuto sopra. In particolare, è pregevole il modo in cui Utz tratta dell’aspetto motivazionale - più tecnicamente, noi parliamo del problema del ruolo degli incentivi-disincentivi nel determinare, o comunque condizionare, le decisioni economiche - nel definire la realtà di fondo di un ordinamento economico sul piano etico-economico. La proposizione centrale che l’autore formula sulla definizione etico-economica dell’ordinamento cercato, che suona quale: "l’economia di concorrenza fondata sul diritto universale individuale alla proprietà privata produttiva e consumativa, con la diffusione maggiore possibile della proprietà produttiva, con stabilità del livello dei prezzi e piena occupazione" (p. 233), pur essendo non sufficiente, sottolinea senz’altro un aspetto necessario di un sistema economico accettabile per una economia la servizio dell’uomo. Ed è insufficiente perché, anche alla luce della concomitante analisi utziana, contano precipuamente gli altri aspetti - della distribuzione del reddito, della condivisione dei beni, della scelta preferenziale per i poveri - che ben conosciamo come rivenienti dal messaggio evangelico e dalla dottrina morale cristiana.

Quanto al punto, già accennato, del confronto intellettuale con le posizioni di Ota Šik, intanto vanno notati alcuni importanti punti di convergenza fra le posizioni dei due autori, punti che - direi - non possono non riscuotere un consenso più ampio e generalizzato: nelle parole dello Utz, abbiamo: "la necessità di tener presenti gli interessi propri, sia dei consumatori sia degli imprenditori"; l’importanza, però, che tali interessi siano espressi e perseguiti in un contesto sociale "per il mantenimento del macroequilibrio"; l’interesse "a un tranquillo sviluppo delle retribuzioni". Tuttavia è sui modi, gli strumenti, le istituzioni per realizzare i suddetti obiettivi che le due posizioni - quella utziana della economia sociale di mercato e quella sikiana della economia socialista di mercato - si differenziano specificamente, proponendo il nostro autore correttivi, per dire, ex post rispetto ad un’economia (capitalistica) di mercato mentre l’economista ceco propende per soluzioni da intendersi più propriamente in senso ex ante, quanto in particolare per quella che Utz chiama la proposta di "un catalogo di retribuzioni di validità universale" (p. 198).

Trattasi, come si comprende, della questione cruciale dei meccanismi necessari a risolvere i conflitti sulle quote distributive fra i diversi fattori che contribuiscono alla produzione: meccanismi che Utz vedrebbe prevalentemente, ma non esclusivamente, legati al momento redistributivo o della distribuzione secondaria del reddito, mentre Šik li collocherebbe al livello della distribuzione primaria o della formazione del reddito, in particolare tramite una forma generalizzata di partecipazione del lavoro alla gestione delle imprese. Utz giudica apprezzabile il modello proposto da Šik in quanto, tra l’altro, finalizzato a farsi carico del problema dei macrosquilibri di un’economia capitalistica (che è poi, per dire, uno degli eterni problemi dell’economia, quello già al centro dell’attenzione di Keynes!), ma non lo ritiene realistico, e comunque non lo considera accettabile, giacché - autoproponendosi come "terza via" (p. 195, n. 19) - risulta, tutto sommato, incapace di fornire soluzione adeguata, al contrario del modello della economia sociale di mercato, per l’altro eterno problema di un sistema economico, quello degli incentivi-disincentivi all’azione.

Ancora, in tema di "sistemi economici", Utz, sottolineato giustamente che "esiste una molteplicità di concezioni di ordinamenti ispirati all’economia di mercato" e che "essi si distinguono sostanzialmente per le differenti spiegazioni che danno dell’instabilità nel processo economico", riporta però l’attenzione del lettore - citando anche il consenso su Ciò di un altro importante studioso cattolico tedesco della Dottrina sociale della Chiesa nel periodo fra le due guerre, J. Messner (1955; 19847) - su posizioni anti-keynesiane, anzi pre-keynesiane, che (come già argomentato) non possono essere condivise (pp. 206 e ss.). Viceversa, il grande Utz riemerge allorché riprende conclusivamente, a proposito di sistemi economici alternativi, la questione del metodo dell’etica dell’economia per trovare il sistema economico socialmente giusto. Come sappiamo e com’è da condividersi in pieno, la posizione utziana è che: "L’etica dell’economia ... per valutare i sistemi economici prende come punto di partenza le finalità assiologiche dell’uomo. Essa vede come scopo dell’economia il benessere materiale dei membri della società, misurato sul fine essenziale dell’uomo, naturalmente tenendo presente in ogni caso la scarsità delle risorse naturali, in breve tutto ciò che si intende con ‘ambiente’" (p. 221). E ancora, egli scrive in proposito: "Le decisioni economiche dei membri della società accompagnate dall’interesse personale devono essere armonizzate tramite il sistema economico con il benessere generale, il bene comune" (p. 226). Segue che alla domanda: "in un ordinamento economico che sostiene il diritto di proprietà privata, come si giunge alla coincidenza di interesse proprio e bene comune?", la risposta dell’autore è che è la "motivazione della prestazione" riveniente da "il diritto di proprietà privata del capitale e il diritto a disporne (investimento)" a dover essere considerata "un fattore di ordinamento di un’economia rettamente ordinata. Con ciò è anche dimostrato che il contratto di lavoro individuale è la regola generale, mentre tutto ciò che oggi viene designato ‘oneri previdenziali’ non va incluso nel contratto di lavoro, ma nella seconda distribuzione del reddito". E infine Utz scrive: "Ciò non significa che nell’ordinamento di economia [sociale] di mercato non possano esserci - ed eventualmente debbano esserci - anche imprese che si definiscano come imprese cooperative dei lavoratori. In questo caso una tale impresa si trova nel quadro dell’ordinamento che in linea generale si fonda giuridicamente sulla proprietà privata" (p. 229).

I successivi e conclusivi capitoli del libro ("Domanda e offerta"; "Il denaro e il credito"; "Il prezzo e il giusto prezzo"; "La retribuzione"; "Il profitto") contengono analisi che possono considerarsi esempi di pregevole applicazione del metodo utziano - il metodo dell’etica dell’economia - ad importanti aspetti della realtà economica. Con quelle (poche, ma da non trascurare) riserve che il lettore già conosce, il mio giudizio sulle posizioni dell’autore è largamente positivo e non è proprio il caso di riproporlo volta per volta. Mi piace, tuttavia, concludere questa forse troppo lunga recensione con qualche notazione in tema di analisi dei problemi de "il denaro e il credito", problemi che oggi sono al centro dell’attenzione di tutti e la cui trattazione da parte di Utz devo segnalare per freschezza ed originalità d’impostazione.

Come forse è noto, ci si è sempre confrontati aspramente, ed oggi più che mai, fra neoclassici e anti-neoclassici anche a questo proposito, in particolare sul ruolo delle variabili monetarie ("il denaro") e finanziarie ("il credito") nell’andamento delle grandezze reali dell’economia, grandezze che - in definitiva - sono quelle che contano per la soddisfazione dei bisogni umani. Senza che sia qui possibile affrontare il punto (i lettori di "Oikonomia" possono già avermi letto in merito), la posizione keynesiana in cui mi riconosco, e che è decisamente contrastata dai neoclassici, è che moneta e credito contano sempre e, in particolare, contano nell’indirizzare le scelte e gli andamenti dell’economia reale in certe direzioni, invece che in altre e, più propriamente, nelle direzioni che avvantaggiano i ricchi, invece che in quelle che possano avvantaggiare i bisognosi e gli esclusi, in particolare i poveri dei paesi del Sud del Mondo.

Orbene, Utz, magari senza approfondire certi aspetti analitici della questione, che tra l’altro (mi sia consentito dire) sarebbero largamente di natura keynesiana, assume in merito una posizione moderna ed interessante; e ciò nella misura in cui riconosce, citando Sombart, che "il credito, in quanto creazione di un potere d’acquisto, possegga una forza creativa e perciò assuma un certo primato sul capitale", mentre pure scrive che: "non va ignorata la [sua] dipendenza dalle forze economiche esistenti, tra le quali va annoverato anche il patrimonio da risparmio" (p. 262).

Al di là delle parole, c’è qui il riconoscimento del ruolo di quella interazione fra domanda di investimento e di finanziamento ed offerta di risparmio e di finanziamento che, separatamente prese e debitamente accertate, non possono non essere al cuore di ogni sistema economico e produttivo. Quando invece prevalgano gli aspetti puramente finanziari e speculativi - e su questo punto Utz prende ugualmente una posizione del tutto condivisibile, distinguendo bene fra speculazione buona in quanto selezione o calcolo prudente e speculazione cattiva in quanto "gioco d’azzardo allo stato puro" (p. 272) - allora non si tratta più di quelle operazioni di borsa che, riguardando transazioni a termine, consentono proprio il trasferimento di fondi dai settori che risparmiano ai settori che investono e pertanto risultano svolgere anche oggi, così come è accaduto in passato, un ruolo positivo. Allora, al contrario, si tratta soltanto di spostamenti di fondi, per di più e sempre più spesso di enormi dimensioni e caratterizzati da rapidità e volatilità frenetiche, spostamenti il cui unico scopo è quello di far guadagnare ai pochi quello che perdono i molti in termini di puro e semplice trasferimento di una ricchezza già esistente, invece di creare nuova ricchezza che, inoltre, possa distribuirsi tra le varie componenti che concorrono a produrla inclusi, ovviamente, i fornitori dei fondi ma non vada solo a loro vantaggio (come accade nell’altro caso).

Nelle belle parole dello Utz - e si noti che un discorso simile si pub fare per ogni tipo di operazione finanziaria e creditizia - si legge in proposito: "Finché il mediatore di borsa non fa altro che stimare lo sviluppo reale dei prezzi [dei titoli] e concludere affari in base a questa stima, egli compie all’economia di mercato un prezioso servizio, per il quale gli spetta il corrispondente profitto. Ma le cose hanno tutt’altro aspetto quando per il proprio utile cerca di manipolare lo sviluppo dei prezzi [oppure dei tassi d’interesse o dei cambi in moneta estera] tramite acquisti o vendite escogitati astutamente o quando addirittura persegue fini politici con speculazioni valutarie. Qui abbiamo il cattivo giocatore d’azzardo, per il quale soltanto è adatta l’espressione spregiativa di ‘speculatore’" (p. 274).

La conclusione più ampia dell’autore - e sarà anche la mia conclusione qui - è la seguente: "Nel quadro dell’economia di mercato dinamica, che Tommaso d’Aquino ancora non conosceva, il desiderio di profitto non pub essere globalmente condannato ..., giacché al desiderio di profitto normalmente è connessa una prestazione socio-economica. Tuttavia questa considerazione etico-sociale riporta in fin dei conti alla decisione etico-individuale, cioè alla responsabilità personale dello speculatore in vista del bene comune economico. E’ questa ancora una riprova che l’etica sociale ed economica non pub essere divisa dall’etica individuale" (p. 275).

 

Riferimenti bibliografici

- F. Marzano, Economia ed etica: due mondi a confronto, Roma, Ave, 1998

- J. Messner, Ethik. Kompendium der Gesamtethik, Innsbruck, Tyrolia-Verlag, 1955

- J. Messner, Das Naturecht, Handbuch der Gesellschaftsethik, Staatsethik und Wirtschatsethik, Berlino, Dunker & Humbolt, 19847

- O. Šik, Humane Wirtschaftdemokratie. Ein Dritter Weg, Hamburg, Knaus, 1979

- J. Messner, Wirtschaftssysteme. vergleiche - Theire - Kritik, Berlin-Heidelberg, Springer, 1987

- F. Vito, Economia Politica. I. Introduzione alla economia politica, Milano, Giuffrè, 196712.

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