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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

Per generale condivisione, si ritiene che ad ogni singolo essere umano e alla specie nel suo complesso, appartenga un certo livello di aggressività1. Al tempo stesso si opina che l’organizzazione umana detta “stato” esprima un tasso di aggressività anche più elevato di quello delle persone e delle comunità umane non statali. pdf

L’affermazione è sostenuta da talune constatazioni. Diversamente da altre organizzazioni “naturali” come la famiglia o la comunità di appartenenza, lo stato è generato da dinamiche che esprimono per lo più imposizioni e sopraffazione, benché non manchi poi di evocare a proprio fondamento finalità etiche. Fenomeno artificiale, artefatto creato nella storia e che nella storia si trasforma e perisce, lo stato viene dall’aggressività di élite, gruppi di potere o d’interesse2 3. Si pensi al mito della nascita di Roma, e a come Romolo uccida Remo perché rifiuta la proibizione a valicare il primo limes romano. I processi che hanno originato gli stati sono in larghissima parte impregnati di ostilità e guerre. Repubbliche, regni, imperi, sono nati dal confluire, nel progetto di idee e/o interessi tesi a costituirsi in stato, di un’aggressività capace di vincere su chi si fosse opposto. Successivamente, gli sviluppi interni alla politica e alla conduzione degli stati costituiti, si sono inevitabilmente tradotti in continuo scontro tra pretendenti al vertice, la cosiddetta lotta per il potere, fenomeno alimentato dalla reciproca aggressività dei contendenti.
Lo stato, in quanto detentore unico, attraverso polizia e forze armate, dell’uso legale della violenza, esprime questa funzione con modalità più o meno democratiche a seconda del regime che lo legittima, sempre e comunque proponendosi come portatore di aggressività, sia essa benevola o malevola4, impossibilitato a uscire dalla propria condizione, come Sisifo dalla sua fatica. Nessuno meglio di Simone Weil, che chiama a sostegno Marx, si è probabilmente espresso con tanta nettezza sulla difficoltà dello stato di uscire dalla proprietà di aggressività e violenza che gli è endemica. La pensatrice ebrea francese aveva solo 25 anni quando, riflettendo sulla forza, e il collegamento di questa con la struttura stato, scrisse:


“La forza e l’oppressione sono cose distinte; ma occorre capire innanzitutto che non è il modo in cui una forza qualsiasi viene usata, ma la sua natura stessa a determinare se essa è o non è oppressiva. Marx lo ha colto chiaramente per quanto concerne lo Stato; egli ha capito che questa macchina per stritolare gli uomini non può smettere di stritolare finché è in funzione, nelle mani di chiunque essa si trovi”5.

Trattasi di una fattispecie interna che gli stati proietteranno all’esterno, nelle azioni di politica internazionale, plasmando con la loro aggressività il sistema internazionale. Pur essendo capaci di azioni cooperative, in particolare quando il loro governo è espresso da un regime democratico, gli stati devono da un lato difendere il territorio e la popolazione che amministrano, dall’altro espandere la sfera di influenza per garantirsi risorse economiche e di sicurezza. Senza una certa dose di aggressività le due azioni minime di autotutela, basilari per perpetuarsi e garantirsi consenso interno e rispetto esterno, non godrebbero di efficacia. A tal proposito occorre richiamare che le maggiori dottrine di relazioni internazionali, l’idealistica e la realistica, anche nelle versioni più aggiornate, attribuiscono allo stato l’onere di praticare questa sua capacità. Se l’affermazione appare ovvia per il realismo, che affida agli stati il dovere di armarsi per opporre la propria aggressività all’aggressività altrui, non deve risultare sorprendente che lo sia anche per l’idealismo.
Il quarto dei 14 punti che il presidente Wilson presenta al senato degli Stati Uniti nel gennaio 19186 prevede: “Scambio di efficaci garanzie che gli armamenti dei singoli stati saranno ridotti al minimo compatibile con la sicurezza interna”. Sulla base di quel precetto, lo statuto della Società delle Nazioni, SdN, e successivamente il patto denominato Briand-Kellog7, punteranno a togliere agli stati il diritto all’uso delle armi nell’arena internazionale, riservandolo ad un’autorità universalmente condivisa. Alla luce della storia e degli orribili conflitti del ventennio che termina con la seconda guerra mondiale, si capirà negli anni di guerra fredda che la regolazione della produzione e del commercio degli armamenti avrebbe prodotto risultati migliori della pretesa dell’idealismo alla cancellazione del diritto all’uso delle armi da parte degli stati.
Si aggiunga che mentre quella degli stati è aggressività regolata dal diritto interno e internazionale, quindi una sorta di aggressività ammansita, quella di soggetti di relazioni internazionali esterni agli stati, i gruppi di insorti per ragioni ideologiche etniche o religiose, gli insorgenti per ragioni socio-economiche, i fronti di liberazione nazionale, esprimono aggressività fuori da ogni controllo che scaturisca da accordo pattizio. Il terrorismo islamista contemporaneo agisce in quest’ambito concettuale.

Dare opportunità all’aggressività positiva

Se si parte dall’ineliminabilità dell’aggressività nei comportamenti degli stati, allora la questione è non solo come imbrigliarla perché non generi conflitti e guerre, ma come incanalarla verso azioni positive di giustizia. e contro l’ingiustizia. Si pensi agli interventi di cosiddetta “ingerenza umanitaria”, alle azioni di peace keeping e peace enforcing. In questo caso gli stati e le loro organizzazioni internazionali incanalano nel sistema internazionale dosi di aggressività positiva finalizzata a risultati anche di spessore etico, oltre che di tutela di interessi. L’azione Nato del 1999 che ha posto fine all’aggressione serba contro la popolazione albanese del Kosovo, può certamente essere ascritta in quest’ambito.
Non casualmente la disciplina accademica che studia le Relazioni internazionali nasce, alla fine della prima guerra mondiale, per offrire un contributo, su basi scientifiche, alla pacificazione dei rapporti tra stati sino ad allora basati quasi esclusivamente sull’aggressività reciproca, economica politica e militare8. La carneficina bellica aveva convinto della necessità di edificare una “scienza della pacificazione” da mettere a disposizione degli stati, per spingerli a comportamenti cooperativi e amichevoli. Vi era consapevolezza che lo stato nasce sul principio di esclusione. É inclusivo per i propri cittadini e, in parte, per chi reputa alleato. È escludente verso ogni altro stato e popolazione. Ciò ha certamente a che vedere con le necessità di sicurezza, sempre in cima alle priorità degli stati, ma al tempo stesso ha una radice irrazionale di paura che merita attenzione. È la sfiducia verso l’ ”altro”, verso chi lo stato non è in grado di controllare come può controllare i propri cittadini. Il confine, il limes, la porta di ingresso e di uscita delle città di un tempo, possono essere assunti come simbolo di questo atteggiamento9: ciò che è “dentro” il limite, e ciò che è “fuori” dal limite assumono qualificazione opposta. Il primo è un’opportunità, il secondo un rischio, un pericolo. La prova di quanto si afferma può essere ritrovata nell’atteggiamento che gli stati, in particolare quelli non democratici, assumono verso apolidi e nomadi, nei casi estremi verso i rifugiati. Questi non sono espressione né di inimicizia né di aggressione, eppure sono interpretati come un pericolo e ricevono status e trattamenti specifici per lo più fondati sulla sfiducia.
La versione “nazionalista” della politica internazionale, con l’esasperazione della priorità dell’interesse nazionale rispetto ad ogni altra esigenza, inclusa quella dei diritti umani, è il vero avversario della politica inclusiva. Ed è nel nazionalismo, con le sue declinazioni nel tempo e nei luoghi più diversi, che l’aggressività trova le migliori opportunità per tramutarsi in conflitto e guerra. Lo ha detto con sapienza il presidente Mitterrand nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo il 17 gennaio 1995:


«Je dis cela… pour faire comprendre que chacun a vu le monde de l’endroit où il se trouvait, et ce point de vue était généralement déformant. Il faut vaincre ses préjugés. Ce que je vous demande là est presque impossible, car il faut vaincre notre histoire et pourtant si on ne la vainc pas, il faut savoir qu’une règle s’imposera, Mesdames et Messieurs: le nationalisme, c’est la guerre! La guerre ce n’est pas seulement le passé, cela peut être notre avenir…».

Raccogliere l’esortazione del vecchio militante socialista ed europeista ad aggredire le condizioni che rendono infido il sistema internazionale significa aderire al precetto di Hobbes che indica agli uomini il dovere della pacificazione, ovvero dell’eliminazione dello stato di conflitto generale tra gli uomini dove ogni umano è lupo all’altro umano. Scrive nel Leviathan: “Cercare di conseguire la pace è la prima legge di natura”10. Occorre, a questo fine, muovere dalla consapevolezza delle tante forze che si battono per l’obiettivo contrario, a cominciare da molti stati e regimi politici che, nella presente stagione, tornano ai vecchi mantra del nazionalismo e della protezione armata dal nemico. Serva, a questo proposito, la lezione che viene da Vladimir Volkoff11, con l’appello alla vigilanza contro le manipolazioni del potere e la sua forte capacità di propaganda:


«L’État, quelle que soit la classe au pouvoir, repose sur deux baleines: la force et le consentement … D’après Gramsci, le pouvoir de la classe dominante se fonde non seulement sur la violence mais aussi sur l’acquiescement. Le mécanisme du pouvoir, ce n’est pas que la contrainte, c’est aussi la persuasion».

E ancora, nel paragone tra manipolazione della coscienza e violenza, come attività dello stato:


«En effet, remarque Kara-Mourza, quand, pour remplacer la force, le moyen principal du pouvoir est devenu la manipulation de la conscience, les gens au pouvoir ont éprouvé le besoin de disposer d’une parole totalement affranchie, le besoin de transformer la parole en un instrument inanimé, sans personnalité… Le mot possède une force magique et donner un faux nom est aussi important dans la manipulation de la conscience qu’à la guerre de fournir des bons pdfpapiers d’identité et l’uniforme de l’adversaire est un espion».

Isaac Singer, istigando la nostra aggressività positiva a vedersela con le contraddizioni in cui si dibatte, avvertirebbe12:


“Il problema è che la gente tranquilla e paziente è passiva, e quelli che hanno il potere, i manigoldi, sono aggressivi. Se una maggioranza rispettabile decidesse una volta per tutte di prendere in mano il potere, probabilmente ci sarebbe la pace”. “Non prenderanno mai una decisione e non conquisteranno mai il potere”, dissi. “Il potere e la passività non vanno d’accordo”.


NOTE

1. Il termine è qui utilizzato nell’accezione “neutra” generalmente impiegata in psicologia e pedagogia. Aggressività va intesa come una delle potenzialità a disposizione dell’essere umano, che può declinarla in “positivo” o in “negativo”. L’atleta potrà vincere la sua medaglia solo se ha a disposizione, tra gli altri requisiti, aggressività positiva che lo faccia allenare e concorrere con grinta e volontà per prevalere. Se ostacola in modo illecito l’avversario o mette in atto altri comportamenti banditi dalle regole sportive, esprimerà, però, aggressività negativa. Può pertanto definirsi l’aggressività come energia competitiva, attivabile per il raggiungimento di un obiettivo anche attraverso un’offensiva strategica.

2. Michael Walzer afferma: “Gli stati non sono mai stati moralmente sovrani ma soltanto legalmente sovrani”, in “Guerre ingiuste e ingiuste, Liguori ed., 1990, pag. 378.

3. Gli interessi sono espressi dal gruppo etnico o nazionale, da élite religiose o militari. Possono essere relativi alla tutela di esigenze di sicurezza, economiche, culturali, politiche.

4. Se il linguaggio è rappresentativo di una realtà, non è irrilevante che la funzione fiscale dello stato venga detta in gergo “percussione fiscale”, le disposizioni amministrative assumano la qualifica di “intimazioni” o “ingiunzioni”. Il carcere, fondato sul principio di “detenzione”, dà evidenza alla pratica dell’aggressività statale, che si espande, nei regimi meno democratici, sino alla tortura e alla pena capitale. Il regime dispotico e totalitario realizza il massimo livello possibile di aggressività statale interna trasformando i cittadini in detenuti a piede libero, privi di habeas corpus.

5. Da “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale” (1934), edizioni Adelphi, 1983, pag. 42.

6. Woodrow Wilson è considerato il primo grande politico che adotti la teoria dell’idealismo e lo trasformi in modello di politica. Al tavolo di Versailles, il Covenant che dà vita alla Società delle Nazioni riprende i contenuti dei 14 punti dell’8 gennaio 1918. Non si nega l’aggressività degli stati, ma si prova a sterilizzarla, affidando all’SdN il diritto esclusivo all’uso della forza. Il succedersi di aggressioni e violazioni (Occupazioni di Ruhr, Corfù, territori turchi; invasione di Manciuria ed Etiopia; guerra civile spagnola; poi le aggressioni del Reich) documenterà l’impraticabilità dello schema.

7. Il 27 agosto 1927 a Parigi 15 nazioni firmano il patto Briand-Kellog, ministri degli esteri rispettivamente di Francia e Usa, successivamente premi Nobel per la pace. C’è l’impegno a bandire la guerra come strumento di politica internazionale. Entro la fine di quell’anno aderiranno al patto altri 39 stati. Meno di due anni dopo, il 5 settembre 1929, Briand, ora presidente del consiglio francese, chiede, nel corso della 10a Assemblea generale della SdN a Ginevra, che si vada a “una specie di legame federale” tra i popoli d’Europa. Esattamente dieci anni dopo, il 3 settembre Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania che due giorni prima ha invaso la Polonia. E’ la seconda guerra mondiale.

8. La prima cattedra di Relazioni internazionali, intitolata a Woodrow Wilson, inizia la propria attività nel 1919 ad Aberystwyth, University College of Wales, ed è retta da Alfred Zimmern, in futuro alla SdN.

9. “L’uomo è forse la creatura più timorosa che ci sia, poiché alla paura elementare dei predatori e dei membri ostili della sua stessa specie, si aggiungono le paure esistenziali portate dal suo stesso intelletto”. Christa Sütterlin con Iräneus Eibl-Eibesfeldt, Fear, Defense and Aggression in Animals and Man: some Ethological Perspectives, in P.F. Brain, D. Parmigiani, R. Blanchard, D. Mainardi (Eds.) Fear and Defense, Harwood Ac. Publ., 1990, pagg. 381-408.

10. Leviathan I, 14.

11. Vladimir Volkoff, La Désinformation vue de l’Est, éditions du Rocher, 2007, pag. 38. L’altra citazione è a pag. 46.

12. Isaac B. Singer, Ombre sull’Hudson, ed. it. Longanesi, 2000, pag. 90.

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