GIUSEPPE CASALE
Nel segno della continuità
onostante il sensazionalismo talvolta adoperato per sottolineare nell’attuale pontefice il “Papa sociale” che ricollocherebbe finalmente il cristianesimo nella sua primeva vocazione a difesa degli “ultimi” che subiscono le vessazioni del potere, è tempo di riconoscere il segno di una profonda continuità. Soprattutto, è tempo di riconoscere che le sue affermazioni non sono riducibili esclusivamente a generosi conamina cordis, ma derivano altresì da un’attenta lettura socio-politica del presente. Una simile verifica si ottiene preferenzialmente dall’analisi del linguaggio impiegato nelle reiterate definizioni della “buona politica” in rapporto alla unilateralità del potere economico. Per ovvie ragioni di spazio, in questa sede ci si limiterà a selezionare, a titolo di mero esempio, taluni passaggi dei discorsi tenuti alla cittadinanza di Cesena e ai rappresentanti del mondo del lavoro di Bologna nel corso delle visite pastorali del 1 ottobre 2017.
Con gli espliciti richiami alla Dottrina sociale, essi suggeriscono, una volta di più, l’intenzione di sintonizzarsi con la medesima sollecitudine che ispirò alla Chiesa l’esigenza di attivarsi nel formulare una risposta tempestiva e, insieme, progressiva, a un’età di profondissime trasformazioni, attivate da un concorso di fattori catalizzati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, che stavano modificando alla radice la fisionomia delle società occidentali, offrendo nuove opportunità ma mettendone altresì a rischio la tenuta. Le nuove forme di sfruttamento e marginalizzazione che la rivoluzione delle strutture economico-produttive andava procurando in una socialità di massa, imponendo la rinuncia ai precedenti strumenti di solidarietà comunitaria, spingevano a cercare soluzione nella contrapposizione massimalista proposta dalle “nuove case comuni” ideologiche. La Chiesa, a partire da Leone XIII, cercò non solo di proporre l’esercizio di pratiche di consensualità, ma volle suggerire una diagnosi tutt’altro che estemporanea delle patologie che sortiscono dalle sperequazioni socioeconomiche, fondandola sul principio della dignità della persona umana, ontologicamente sottratto – in quanto anteriore – alle creazioni arbitrarie di una politica e di un diritto appiattiti sui riduzionismi apodittici delle leggi economiche1.
Nell’obliterazione di tale principio sia da parte della logica del profitto senza sconti, sia da parte dei soggetti da essa lesi, la Chiesa ha visto le premesse del “sonno della ragione” e delle strumentalizzazioni delle sofferenze altrui di cui il Novecento ha offerto tristi riscontri.
La “buona politica”
Mutatis mutandis, nelle circostanze odierne, che pongono all’ordine del giorno nuovi esodi (non più dalla campagna alla città, ma da un continente a un altro), nuovi assetti geoeconomici, l’apertura di nuove aree di conflittualità internazionale e inedite rotture degli equilibri consolidati nell’ambito delle società nazionali, la Chiesa di papa Francesco avverte l’urgenza di riproporre all’agenda delle classi di governo il senso di un’autonomia in virtù della quale la politica si fa (per usare una formula di Aristotele) “scienza architettonica”, capace di considerare nell’insieme i diversi sottosistemi in cui si articola la società, al fine di coordinarli e integrarne le finalità, per uniformarli alle pluriverse espressioni etiche della persona umana2.
In questo modo è possibile interpretare ciò che il pontefice ha affermato a Cesena, assumendo la piazza come metafora della “buona politica”: «luogo emblematico, dove le aspirazioni dei singoli si confrontano con le esigenze, le aspettative e i sogni dell’intera cittadinanza; dove i gruppi particolari prendono coscienza che i loro desideri vanno armonizzati con quelli della collettività. […] Questa armonizzazione dei desideri propri con quelli della comunità fa il bene comune. In questa piazza si apprende che, senza perseguire con costanza, impegno e intelligenza il bene comune, nemmeno i singoli potranno usufruire dei loro diritti e realizzare le loro più nobili aspirazioni, perché verrebbe meno lo spazio ordinato e civile in cui vivere e operare»3. Il che presuppone nella politica un’attitudine di servizio lungi dal tradursi in asservimento a logiche di parte, bensì qualificabile come obiettiva equidistanza, realizzata nella misura in cui si soddisfi un requisito essenziale: «La politica è sembrata in questi anni a volte ritrarsi di fronte all’aggressività e alla pervasività di altre forme di potere, come quella finanziaria e quella mediatica. Occorre rilanciare i diritti della buona politica, la sua indipendenza, la sua idoneità specifica a servire il bene pubblico, ad agire in modo da diminuire le disuguaglianze, a promuovere con misure concrete il bene delle famiglie, a fornire una solida cornice di diritti–doveri – bilanciare tutti e due – e a renderli effettivi per tutti»4.
Il tenore complessivo del messaggio mostra una certa consonanza con le conclusioni cui diversi politologi e analisti di political economy oggi pervengono nel registrare nell’élite politica occidentale l’inclinazione a ridursi alla mera ratifica di indirizzi stabiliti dalle sedi autocefale della finanza transnazionale, giustificando mediante la retorica TINA (“there is no alternative”) forme sempre più accentuate di deregolazione dei mercati sempre meno compatibili con un modello di sviluppo socialmente embedded5. E sempre più in contrasto con i paradigmi di una democrazia promotrice del giusto dosaggio tra libertà ed eguaglianza, benessere e giustizia sociale, capace di prestare la stessa attenzione ai tassi di crescita e alle prestazioni inclusive6. In questa direzione vanno le parole indirizzate al mondo del lavoro bolognese, laddove il richiamo al “Patto per il lavoro” siglato dalle parti sociali, con l’adesione della Chiesa stessa, ha fornito l’occasione per assumere l’esperienza cooperativa come un’indicazione di metodo, volta a ripristinare un welfare da intendere non nei termini svilenti dell’assistenzialismo – troppo spesso moneta di scambio clientelare – bensì quale ascensore sociale che coniuga solidarietà con responsabilizzazione individuale e comunitaria. La quale proprio nel lavoro trova il presupposto pratico per la valorizzazione della persona in risposta alle varie fenomenologie della crisi odierna: «La crisi economica ha una dimensione europea e globale; e, come sappiamo, essa è anche crisi etica, spirituale e umana. Alla radice c’è un tradimento del bene comune, da parte sia di singoli sia di gruppi di potere. È necessario quindi togliere centralità alla legge del profitto e assegnarla alla persona e al bene comune. Ma perché tale centralità sia reale, effettiva e non solo proclamata a parole, bisogna aumentare le opportunità di lavoro dignitoso. Questo è un compito che appartiene alla società intera»7.
L’autonomia della politica
D’altro canto, la questione dell’autonomia della politica coinvolge inevitabilmente quello della responsabilità, che papa Francesco associa alla difficile arte di compiere scelte: «il buon politico ha anche la propria croce quando vuole essere buono perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per prendere le iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarle, perché sia proprio il bene comune ad essere portato avanti. In questo senso il buon politico finisce sempre per essere un “martire” al servizio, perché lascia le proprie idee ma non le abbandona, le mette in discussione con tutti per andare verso il bene comune»8. A dispetto delle forzature che se ne possono dare, è chiaro che non si tratta di una variazione sul tema della presunta avalutatività/amoralità che si imporrebbe al politico democratico. Non lo è nella misura in cui autonomia non si traduce in relativismo o, peggio ancora, nella pretesa autofondativa di una politica che si consideri arbitrariamente svincolata da contenuti non assoggettabili alle proprie statuizioni potestative. Il richiamo al bene comune è sufficiente a dimostrare che autonomia significa dedizione agli interessi primari della collettività, in virtù della quale occorre discernere – attraverso il vaglio del confronto – ciò che effettivamente a essi pertiene da ciò che, invece, dipende dalla prospettiva soggettiva del decisore.
Molto spesso la questione dell’imparzialità dello stato di diritto liberaldemocratico è stata posta in maniera equivoca. È pur vero, come ricordava Hans Kelsen, che una delle condizioni che ha permesso alla politica moderna di assumere una cifra pluralistica è stata l’emancipazione della legge umana da un’ipoteca sacrale, come pure da una morale facilmente assoggettabile alla funzione di instrumentum regni. Tuttavia, il tradurre l’autonomia della politica come indifferentismo etico finisce per corrispondere a quella stessa occasione propizia che ha dato modo ai fenomeni totalitari di giustificare le proprie intenzioni di instaurare, su basi oggettivamente “scientifiche”, la Nuova Umanità.
D’altronde, la stessa neutralità, intesa come avalorialità, non si addice nemmeno alla democrazia. A dispetto delle definizioni “minime” e proceduralistiche che le sono state applicate, essa contiene un nucleo normativo irriducibile, che la proietta verso un orizzonte teleologico animato da valori ben distinguibili. Dimenticarlo vuol dire accettare l’ipotesi che la democrazia, pur conservando le proprie forme, si trasformi in qualcosa di diverso, tradendo le mete realizzative che essa pone. Condannare la presenza di politici disposti a spendersi convintamente in nome di valori consustanziali alla dignità primaria della persona significa ammettere che tutto si possa e si debba mettere ai voti: significa sottoscrivere quanto sostenuto da Hobbes allorché invitava ad ammettere universalmente che auctoritas non veritas facit legem. In fondo, ciò giustifica una legalità non necessariamente legittima di un potere parimenti assoluto, in quanto sottratto a qualsiasi limite che non sia l’esito formale di una deliberazione che stabilisca la propria verità, salvo contraddirla il giorno seguente, senza neanche dovere fare ammenda dei guasti irreversibili eventualmente provocati.
Dai limiti ai doveri
Del resto, è bene ricordare che l’età degli assolutismi in Europa si aprì in concomitanza con l’affermazione del moderno concetto di sovranità, allora tradotto come prerogativa dello Stato di non avere nulla e nessuno al di sopra di sé, rompendo con la configurazione precedente di un potere politico che, per quanto non democratico, trovava nelle leggi divine e naturali un riferimento regolativo e un criterio in base al quale stabilire se fosse legittimo e giusto, ovvero tirannico e arbitrario, l’esercizio di governo. Eppure, tutto ciò trovò nella dimensione filosofica e teologica l'ambito in cui continuare a coltivare una sensibilità civilizzazionale che, ancora grazie al raccordo transepocale prestato da figure del pensiero cristiano come l’Aquinate, si laicizzò nelle rielaborazioni di giureconsulti impegnati, all'alba dell’evo moderno, a riconcettualizzare le coordinate del passato per consegnarle a un processo di sedimentazione che, pur su canoni del tutto secolarizzati, avrebbe maturato i presupposti della costituzionalizzazione del potere sulla base di principi indefettibili1. secolarizzati, avrebbe maturato i presupposti della costituzionalizzazione del potere sulla base di principi indefettibili9.
Quantunque il giornalismo mainstream stenti ad ancorarle a un simile portato plurisecolare, le esternazioni in cui si articola il magistero di papa Francesco pongono all’evidenza del sensorio democratico odierno la questione dei limiti del potere politico, coniugandola tuttavia con la sua implicazione speculare: quella delle prerogative, dal momento che se v’è l’esigenza di non esorbitare dagli argini, questa si giustifica esattamente in misura delle funzioni da onorare. In questa luce, l’autonomia della politica si individua non nella pretesa di imporre cosa sia vero e giusto erga omnes, bensì nell’attenzione a conservarsi libera di vigilare sui confini che qualsiasi altra forma di potere è chiamata a rispettare: perimetri che nell’ottica (non solo) cristiana coincidono con le dimensioni originarie e perciò indisponibili dell’umano, giacché si danno anteriormente alla volontà occasionale di ciascuno (foss’anche di tutti), costituendo perciò la piattaforma su cui si erige la nostra architettura di civiltà10. La quale annovera senza ombra di dubbio un requisito pluralistico, senza tuttavia giustificare avvitamenti intellettualistici per i quali sostenere che qualsiasi interesse sia compatibile con una definizione democratica dell’idem sentire de re publica: il patrimonio assiologico su cui stabilire un foedus, un patto sociale che è anche iterativamente fondativo, giacché strutturato sulla condivisione dei valori da preservare, in funzione delle mete altrettanto concordemente perseguite.
Convinzione e responsabilità
Anche certa politologia va prendendo in seria considerazione il bisogno pragmatico di vedere la cultura di una società democratica radicarsi in una “religione civile”, capace di suscitare coinvolgimento personale, anziché assistere alla lenta consunzione di un regime ridotto alla stanca ripetizione di procedure elettorali, ovvero, al manageralismo tecnocratico del policy making11. Sicché, l’impegno civico cui papa Francesco sollecita l’uomo contemporaneo incontra, sul medesimo terreno della ragione laica, l’esigenza di condurre a coerenza l’antitesi weberiana tra etica della convinzione ed etica della responsabilità12. Se per il grande sociologo tedesco, solo quest’ultima dovrebbe dirsi effettivamente politica, giacché la prima si lascia illuminare esclusivamente da principi primi di ordine morale, priva del dovuto distacco (Distanzlosigkeit) e senza preoccuparsi delle conseguenze che il loro perseguimento comporta, resta tuttavia da chiedersi su cosa possa realisticamente fondarsi l’implementazione di una determinata idea di civiltà, se non sull’adesione verace da parte di chi abbia il compito di sovrintendervi13.
E infatti Weber stesso si mostrò consapevole del paradosso di un’etica della responsabilità che si espone al rischio della demotivazione o, peggio ancora, della confusione tra mezzi e fini. Motivo per il quale decise di qualificare la politica con l’ambivalente termine di Beruf, traducibile tanto con “professione” quanto con vocazione. Persino colui che viene considerato il corifeo della natura wertfrei delle scienze sociali, nel tirare le somme, arrivava ad affermare: «il problema è appunto questo: come possono coabitare in un medesimo animo l'ardente passione e la fredda lungimiranza? La politica si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell'animo. E tuttavia la dedizione alla politica, se questa non dev'essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente umana, può nascere ed essere alimentata soltanto dalla passione. […] [Il politico] rischia, per mancanza di una causa, di scambiare nelle sue aspirazioni la prestigiosa apparenza del potere per il potere reale e, per mancanza di responsabilità, di godere del potere semplicemente per amor della potenza, senza dargli uno scopo per contenuto»14.
Professione e vocazione
Del resto, dove trovare il coraggio delle scelte cui, insieme alla responsabilità, papa Francesco invita la politica, se esso non muove da convinzioni profondamente avvertite? E poi: responsabilità, ma verso chi e cosa? Forse rispetto alla causa stessa, che per il buon politico corrisponde all’interesse di quella porzione di umanità rimessa temporaneamente alle sue cure. Convinzioni e responsabilità, dunque, sarebbero da ricondurre a sintesi compatibile mediante l’esercizio prudenziale che assume la rilevazione competente del bene comune come criterio del discernimento, appunto, di «una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo […]. Una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza»15.
Evidentemente, un simile cimento esige altresì una concezione democratica basata su un umanesimo antitetico a qualsiasi connotazione perfettistica della funzione politica. Affinché sia reso operativo, occorre farne non soltanto oggetto di adesione intellettuale, bensì alimento costante della personalità morale dell’individuo politicamente attivo. In proposito, il cristiano dispone di un prezioso e agevole “convertitore”. Esso consiste nella preghiera che, a parere di chi scrive, meglio si addice a chi intenda occuparsi del bene comune coinvolgendosi in una delle più nobili forme della carità. È il Padre nostro, che è preghiera anche di significato politico, specialmente per la petizione con cui si fa richiesta del “pane quotidiano” a beneficio presente e comunitario («dacci oggi»), ancor più se letta alla luce della petizione precedente: «sia fatta la Tua volontà». Il pane materiale può servire a sfamare chi lo riceve, ma chi si occupa del bene comune deve cercare alimenti che lo sostengano nel realizzare un disegno di qualità superiore: affinché la politica non si svilisca a mera gestione dello status quo, senza preoccuparsi di una progettualità giusta e latrice di giustizia per le collettività di cui è chiamata a farsi carico. E affinché la richiesta del “pane” non sia la passiva ricezione di un bene a proprio uso e consumo, ma si traduca in una dichiarazione di impegno autentico e costante. Esattamente quello che si addice a una professione svolta secondo vocazione.
Note:
1 Cfr. P. Barucci e A. Magliulo, L'insegnamento economico e sociale della Chiesa, 1891-1991, Mondadori, Milano 1996.
2 Utili spunti di analisi a riguardo sono ricavabili, sotto un profilo al contempo economico ed etico-politico, da R. Skidelsky e E. Skidelsky, How Much Is Enough? The Love of Money and the Case for the Good Live, Penguin Books, London 2012; U. Guiducci, Il neo-liberismo e la dottrina sociale della Chiesa, «Studi economici e sociali», XXXV, 2, 2000, pp. 147–154.
3 Dal testo del discorso tenuto nell’incontro con la cittadinanza di Cesena, Piazza del Popolo, 1 ottobre 2017: http://w2.vatican.va
4 Ibidem.
5 Cfr. W. Merkel, Is capitalism compatible with democracy?, «Zeitschrift für Vergleichende Politikwissenschaft», VIII, 2, 2014, pp. 109-128.
6 Sulla constitutive tangenzialità ma altresì le distinzioni funzionali tra politica ed economia C.E. Lindblom, The Market System: What It Is, How It Works, and What To Make of It, Yale University Press, New Haven- London 2001.
7 Dal testo del discorso tenuto nell’incontro con il mondo del lavoro, i disoccupati, i rappresentanti di Unindustria, sindacati, Confcooperative e Legacoop a Bologna, Piazza Maggiore, 1 ottobre 2017: http://w2.vatican.va
8 Incontro con la cittadinanza di Cesena, cit.
9 Sulla natura culturalmente inclusiva, progressiva e dinamica della dottrina sociale si veda G. Campanini, La dottrina sociale della Chiesa. Le acquisizioni e le nuove sfide, EDB, Bologna 2007.
10 Cfr. A. Scola, La dottrina sociale della Chiesa: risorsa per una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2007.
11 Tra i diversi esempi di un approccio politologico del tipo accennato, si veda G.E. Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza, Roma-Bari 1999.
12 Cfr. M. Weber, Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, Duncker & Humblot, Berlin 1919, trad. it. Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, Einaudi, Torino 1971.
13 Non dissimili alcune delle considerazioni cui perviene G. Nevola, Il malessere della democrazia contemporanea e la sfida dell’incantesimo democratico, «Il Politico», LXXII, 1, 2007, pp. 165-200.
14 M. Weber, Il lavoro intellettuale, cit., pp. 118 ss. In definitiva, il celebre studioso ammetteva: «Quale debba essere la causa per i cui fini l'uomo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede. Egli può servire la nazione o l'umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mondani o religiosi […] sempre però deve avere una fede. Altrimenti la maledizione della nullità delle creature incombe effettivamente – ciò è assolutamente esatto – anche sui successi politici esteriormente più solidi».
15 Incontro con la cittadinanza di Cesena, cit.