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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

1. Premessa.

Nell'estate dello scorso anno, predisponevo una relazione in tema di "Sui rapporti fra aspetti conomici ed etici nella finanza" che, servita di base per un acceso confronto fra economisti ed altri studiosi di due Università pontificie, è poi "confluita" nella raccolta di saggi appena pubblicata dal titolo "Economia ed etica: due mondi a confronto" 1.

Nella relazione, "prendendola alla lontana", partivo dalla considerazione che i sistemi economici contemporanei, particolarmente quelli a più alto livello di reddito pro capite ed a più complessa struttura produttiva, sono specificamente caratterizzati da una crescente diversificazione su ogni piano e comparto dell'economia, di tipo sia reale che finanziario. A fronte delle attività reali, quali la produzione, lo scambio, il consumo, il risparmio, l'investimento o accumulazione del capitale (reale), etc., si sono venute affermando e vieppiù intensificando, sul piano finanziario, gli strumenti relativi alle attività e passività finanziarie, ovvero quei titoli che consentono sia l'intermediazione o "fluidificazione" dei fenomeni reali, sia la movimentazione dei cosiddetti "flussi dei fondi" da un settore all'altro e da un territorio all'altro da intendersi come rappresentativi dei fenomeni reali stessi dell'economia.

Il punto è però che i fenomeni finanziari, mentre sono utili, anzi indispensabili, per i compiti d'intermediazione e d'interrelazione svolti nella produzione e crescita reale dei beni e servizi che si vengono a rendere via via disponibili ai cittadini e, perciò, si sono venuti espandendo e diversificando insieme a quelli reali, mostrano spesso un'amplificazione "eccessiva" degli strumenti creati, a proposito della quale si è anche parlato di sovrastruttura finanziaria, in quantochè - per dire - viene a "sovrastare" quella reale. Spesso, ciò accade in maniera "pericolosa" per la stabilità e l'espansione stessa del sistema reale, com'è accaduto in varie fasi dei processi di crescita di un'economia (capitalistica o mista) e come oggigiorno si sta sempre più verificando vuoi sul piano dei "flussi di fondi" a livello interno di un'economia vuoi soprattutto sul fronte dei "movimenti di capitali (finanziari)" a livello di rapporti internazionali. In particolare, come la recentissima "crisi" ha dimostrato, il processo della cosiddetta "finanziarizzazione" dell'economia ha investito sia in maniera massiccia ed eccessiva i paesi ad economia "matura", sia quelli di "nuova industrializzazione" sia anche, a volte, paesi poco sviluppati, specialmente quanto agli impieghi di fondi sul fronte dei titoli di natura esclusivamente finanziaria (i cosiddetti "derivati"), nonchè ai movimenti internazionali di fondi di vario tipo tra paesi già sviluppati e paesi in via di sviluppo.

Nella suddetta relazione, perseguivo un duplice scopo. Dapprima mi proponevo di delineare - per rapida sintesi - i processi che, nelle economie che oggi conosciamo meglio e che sono sostanzialmente le economie capitalistiche e quelle miste (le une e le altre più o meno sviluppate), si sono venuti via via svolgendo ed imponendo sul fronte finanziario ed hanno portato alla creazione ed alla diffusione di tutto un complesso di strumenti finanziari, diretti e indiretti, principali e derivati, nonchè di considerare gli schemi concettuali essenziali che sono stati avanzati come idonei per la loro interpretazione e spiegazione. In secondo luogo, ma con intenti prioritari quanto all'obiettivo ultimo del saggio, mi soffermavo sulle implicazioni e valutazioni di carattere etico che sollecita l'attuale situazione, sempre più "turbinosa", esistente sul piano della struttura o sovrastruttura finanziaria, nonchè sulle regole di condotta che possano scaturirne per gli "operatori" coinvolti ai vari livelli, e cioè nei settori privato, pubblico, e "privato sociale", una volta che il punto di vista morale - o, meglio, di morale sociale - che venga adottato sia quello della dottrina sociale della Chiesa Cattolica 2.

Anzitutto - com'è nel progetto scientifico che porto avanti da qualche anno - intendevo ribadire ancora una volta la tesi che, in qualsiasi sapere, non esiste, può essere mai sottoscritto, un punto di vista che sia unico sul piano "scientifico", a cominciare dalla stessa ricognizione dell'oggetto dell'analisi; e che questo è vero in particolare per i fenomeni o fatti sociali come quelli attinenti all'economia, e più mai quanto alla loro interpretazione, spiegazione, e "direzione di marcia". Ciò, come noto, è da intendersi nel senso che sempre lo studioso è guidato da quella che il grande economista Schumpeter 3 ha chiamato la "Weltanschauung" propria di ogni ricercatore, vale a dire la sua "visione del mondo", la quale è legata sia all'impostazione metodologica che gli è propria, sia soprattutto alle "premesse di valore" cui egli - esplicitamente o implicitamente - aderisce e che lo condizionano sempre.

E' chiaro che, per le questioni socio-economiche che qui ci interessano, si tratta della specifica "visione del mondo" che contraddistingue i diversi approcci degli economisti, storici del pensiero economico, storici economici, statistici economici, relativamente - per dire - allo status epistemologico delle grandezze finanziarie nell'economia. Ed allora, in proposito, si discute animatamente tra gli studiosi sul punto se nei comportamenti e nelle interazioni che caratterizzano un'economia - vuoi in una situazione data, vuoi soprattutto nei processi che segnano la sua crescita e trasformazione nel tempo - i fenomeni finanziari siano stati e siano tuttora un prodotto del dispiegarsi e dell'evolversi dei fenomeni reali, o se, viceversa, quelli si siano "atteggiati" per primi e questi siano poi "seguiti" o comunque gli uni e gli altri si siano prodotti, ampliati, evoluti contestualmente e parallelamente. In particolare, il dibattito coinvolge gli storici economici nella misura in cui - specialmente sul fronte degli studi quantitativi - ci si confronta sul rispettivo "timing" e la differente consistenza delle diverse serie di dati rilevanti quali, da una parte, quelli sugli investimenti (reali), la produzione, il reddito, etc. e, dall'altra, quelli sui principali strumenti finanziari quali la moneta, i titoli creditizi non monetari, gli effetti cambiari, le obbligazioni e le azioni, le valute o divise estere, etc. Gli economisti, più specificamente, sono coinvolti su una duplice prospettiva: primo, in quanto ci si confronta sui meccanismi ed i collegamenti che si suppone siano in azione tra i comportamenti e gli andamenti rispettivi delle grandezze reali e finanziarie-monetarie, ed in particolare quanto al punto se siano le prime a determinare le seconde, oppure viceversa, o comunque si tratti di determinazione contestuale ed interdipendente; secondo, in quanto si dibatte sul significato e sul ruolo che hanno i tipi di strumenti finanziari oggi in più forte espansione che sono quelli che non hanno alcuna "controparte" sul fronte reale e le cui contrattazioni hanno ormai sorpassato - nella maggior parte delle economie capitalistiche o miste - quelle degli altri e più tradizionali strumenti .

Estremizzando, ma non più di tanto, sulle contrapposizioni fra visioni teoriche degli economisti che in effetti sono molte ed anche più "sfumate" tra loro, precisavo che - come ho specificamente argomentato in altra sede 4 -esistono, a mio modo di vedere, due gruppi di studiosi ben distinti e contrapposti, e ci˜ sia in generale che con specifico riferimento al ruolo della finanza nell'economia: il gruppo dei "neoclassici" o "monetaristi" e quello dei "keynesiani" 5. Trattasi di visioni e posizioni veramente contrapposte ed alternative, sia sul piano analitico, sia sul fronte delle conclusioni di politica economica e delle stesse "aperture" ed implicazioni di ordine etico; cosicchè non ne possono non derivare - con particolare riguardo agli stessi ultimi avvenimenti che interessa, più specificamente, considerare in questa sede - analisi e giudizi ben differenti, da cui scaturiscono conclusioni ed atteggiamenti divaricanti.

In effetti, in quanto segue, "partendo" - per dire - dalle acquisizioni proposte nella precedente relazione, mi propongo di fornire una "lettura" dell'ultima crisi internazionale, sul fronte delle turbolenze nei movimenti di fondi fra titoli e valute di ogni genere, alla luce dell'ipotesi di fondo che si è oggi in presenza di livelli e processi veramente "eccessivi" e "inammissibili" di finanziarizzazione delle economie. Tali livelli e processi si sono spinti cos" in avanti, nel far prevalere le ragioni del "puro" impiego finanziario e del "crudo" intento speculativo, da avere oscurato pesantemente quelle dell'economia reale, cioè della produzione ed utilizzo dei beni e servizi per il benessere degli esseri umani - per noi cattolici, in particolare, le ragioni di un'"economia al servizio dell'uomo", di "ogni uomo e di tutti gli uomini", così come "di ogni popolo e di tutti i popoli"; non solo, ma anche da rappresentare oggi una vera e propria "minaccia" alla stabilità ed alla crescita di ogni sistema economico, ed in particolare di quelle economie che maggiormente necessitano di perseguire lo sviluppo economico reale, per la soddisfazione di tanti bisogni, anche "essenziali", repressi e negati spesso fino alla tragedia quotidiana.

 

2. I settori istituzionali dell'economia e i flussi dei fondi. Gli strumenti finanziari diretti e indiretti.

Riprendendo quanto più dettagliatamente richiamato nella precedente relazione, sappiamo che - data la rappresentazione di un'economia come insieme dei cosiddetti settori istituzionali6, i sei settori delle famiglie, imprese (non finanziarie), Stato, privato sociale (o terzo settore), intermediari finanziari, estero, quali "intestatari" di conti reali e finanziari - sul fronte finanziario, il primo punto da sottolineare è che le transazioni reali, crescendo con la crescita dell'economia, necessitano, perchè vengano effettuate in modi sempre più efficienti e soddisfacenti, di ammontari crescenti proprio di quei mezzi d'intermediazione che sono gli strumenti finanziari in genere, ed in particolare di moneta.

Quest'ultima, affermatasi come mezzo d'intermediazione o di scambio, tramite il quale "transitano" tutti gli altri beni e servizi - ed è in questo senso che si parla di fluidificatore degli scambi, cos" com'è il caso dell'olio per i motori meccanici, non può, però, essere ritenuta come avere soltanto tale funzione; il che - si noti - è ancora nell'impostazione dei monetaristi, i quali la ritengono tuttora come la sua funzione veramente "caratterizzante", giungendo ad affermare che la moneta (e, più in generale, tutto il credito) svolge un ruolo "neutrale" nell'andamento dei fenomeni reali. In realtà, la moneta si è via via imposta anche per altre funzioni: soprattutto ed in particolare, oltre che come mezzo di pagamento, mezzo di estinzione dei debiti, misura del valore "nominale" di tutti i beni e servizi prodotti e scambiati, essa si è imposta come riserva di valore "nominale" o strumento d'impiego del risparmio (finanziario) e della ricchezza (finanziaria).

In effetti ed in secondo luogo, si realizza così quello specifico ed importante modo di detenere il proprio patrimonio individuale, o quello collettivo, in termini di disponibilità monetarie ed in particolare, oggi, di depositi bancari (o postali) sia "a vista" o in conto corrente che "a risparmio" o in conto capitale. Grande merito del pensiero keynesiano è il fatto che Keynes (1936), per la prima volta, ha tenuto esplicito conto di quest'ultima funzione della moneta e ne ha fatto un "pilastro" della sua teoria fortemente innovativa del funzionamento di un'economia capitalistica "matura"; proprio da ci˜, tra l'altro, è derivata la proposizione che moneta e credito "contano" specificamente per l'andamento dei fenomeni reali, anzi è il caso che molte volte - com'è sempre più vero ai nostri giorni - contino troppo, anche a scapito della stessa rilevanza di ci˜ che più "dovrebbe" contare vale a dire proprio l'andamento dei fenomeni reali.

Non solo; ma, in terzo luogo - come d'altronde è implicito nelle cose già richiamate - va considerato che, spesso anzi sempre più spesso, sulla base delle transazioni crescenti effettuate e degli introiti ed esborsi relativi, certi settori istituzionali risultano generalmente in surplus, giacchè incassano più di quanto spendono, com'è tipicamente il caso delle famiglie, mentre altri settori risultano in deficit, vale a dire spendono più di quanto incassano, com'è il caso per le imprese e per le amministrazioni pubbliche. Segue che, risultando i vari settori istituzionali "intestatari" o "titolari" di flussi dei fondi, s'instaurano appunto continui movimenti o flussi di fondi, dagli uni agli altri, agli altri ancora, e via di seguito, stabilendosi cos" reciproci rapporti di credito e debito: compito della moneta è, da questo punto di vista, di rendere possibili i trasferimenti di fondi tra soggetti e settori diversi e, quindi, di svolgere - come affermato con forza dallo stesso Keynes 7 - una funzione finanziaria, e più precisamente d'intermediazione finanziaria, nei rapporti tra settori in surplus e settori in deficit.

E' così che nascono, si affermano, e si espandono con la crescita dell'economia, gli strumenti finanziari.

Si tratta, in primo luogo, degli strumenti diretti quali cambiali, obbligazioni, azioni, altri e più sofisticati titoli, strumenti tutti i quali vengono emessi dai settori in deficit che acquisiscono i fondi e s'indebitano e sottoscritti dai settori in surplus che forniscono i fondi e vanno in credito 8, sono espressi in moneta ma- si noti - "posseggono" una ben precisa controparte in termini delle grandezze reali "sottostanti". Inoltre, molti strumenti finanziari vengono trattati e negoziati tramite i cosiddetti mercati finanziari, cioè il mercato dei capitali (o mercato di borsa) che opera all'interno di un'economia ma anche, sempre più oggi, i mercati internazionali dei capitali, mercati tutti nei quali, però si sono venuti col tempo ponendo ed affermando nuovi "fenomeni". Da un lato, sempre più si attua anche lo scambio di titoli sul mercato "secondario", cioè quello concernente titoli già esistenti che vengono venduti da alcuni operatori e comprati da altri; dall'altro lato (come già accennato e come vedremo specificamente in seguito) si è in presenza oggi, su tutti i mercati, di quel complesso fenomeno della creazione e dello scambio dei titoli "derivati" - fra l'altro, quelli "puri" e persino i cosiddetti "sintetici" - cioè sostanzialmente "titoli su titoli", che non "posseggono" alcuna controparte nei fenomeni reali e che tanti problemi sono venuti vieppiù ponendo sul piano tecnico, economico, ed anche etico negli ultimi anni, problemi a cui è necessario dedicare la massima attenzione ai vari livelli.

E' chiaro che, quanto alle interazioni che - come indicato più sopra - s'instaurano fra aspetti reali e finanziari, le cose sembrano svolgersi a livello "fisiologico" ed in effetti possono esserlo sul piano descrittivo; mentre, viceversa, il dibattito investe sempre il momento analitico ed esplicativo, nonchè quello ulteriore di ordine valutativo e prescrittivo, quanto, cioè, al "giudizio" di tipo morale da dare ad un certo assetto economico-finanziario ed alle "regole di condotta" che si ritiene sia rilevante seguire o non seguire nei contesti considerati. Ma sullo stesso piano descrittivo e comunque sul fronte strutturale, il livello "fisiologico" di funzionamento delle cose non sempre e non necessariamente si realizza, proprio stante il primo degli altri due fenomeni che si sono imposti nel campo degli strumenti e dei mercati finanziari nel corso degli anni, vale a dire quello delle negoziazioni di tipo "secondario". D'altro canto, quello non sembra proprio essere il caso sulla base dell'ulteriore e cruciale sviluppo che si è avuto negli ultimi anni e si sta espandendo in maniera ormai esponenziale e preoccupante (come già più volte richiamato), che è quello del comparto degli strumenti finanziari derivati.

Segue che, per entrambi tali sviluppi, vuoi sul piano analitico vuoi, ed a maggior ragione, su quello etico, le distinzioni e le contrapposizioni non possono non essersi accentuate, cosicchè le differenze - in termini di "giudizio" sia tecnico che valutativo, e soprattutto di "regole di condotta" da perseguire, o non perseguire, nella concreta realtà odierna dei mercati finanziari - si presentano come sempre più forti e profonde.

Si tratta, in secondo luogo, dell'altro cruciale sviluppo che, sul terreno dell'intermediazione finanziaria, si è venuto determinando nel corso addirittura dei secoli, con un'accelerazione nel secolo scorso ed in gran parte di questo nostro, e cioè l'affermazione degli strumenti finanziari indiretti e dell'intermediazione monetaria e creditizia. Intanto, si noti - ciò che è assai rilevante, come vedremo, per il funzionamento dei mercati finanziari - che la moneta viene comunque a costituire un mezzo per il trasferimento e la distribuzione, "attraverso l'economia", dei rischi che, sempre ed oggi sempre più, sono connessi alle attività economiche, sia all'interno di un paese che nei rapporti economici internazionali del paese stesso. Non solo; ma, anche in relazione a ciò, un ulteriore aspetto cruciale del funzionamento di ogni economia, che appunto si presenta oggi, sempre più, come "economia monetaria", è il fatto che la moneta fornisce alle Autorità monetarie (ed in particolare alla Banca Centrale) la possibilità di utilizzare tutta una serie di strumenti di politica economica per la stabilizzazione ed il sostegno alla crescita dell'economia.

Quanto agli strumenti finanziari indiretti, sono soprattutto quelli di tipo bancario che si sono venuti affinando ed imponendo, si può dire, dall'epoca rinascimentale ad oggi. E' qui che il discorso investe specificamente - come si comprende - il settore "istituzionale" degli intermediari finanziari o delle istituzioni finanziarie: esso include non solo, ma prevalentemente, gli istituti di credito (si pensi, invero, al ruolo sempre più importante degli istituti di assicurazione, o dei cosiddetti "fondi pensione", o dei "fondi comuni d'investimento"); inoltre gli istituti di credito comprendono sia le banche ordinarie o commerciali che quelle di credito "speciale" (mobiliare ed immobiliare), ed anche la stessa Banca Centrale.

Senza potere entrare in dettagli tecnici, va detto che l'elemento centrale che è alla base della forte espansione nei tempi moderni del sistema creditizio è rappresentato dal fatto che, sempre più, le esigenze dei settori in surplus sono venute differenziandosi da quelle dei settori in deficit. Ciò ha dato spazio e ruolo alla funzione di un settore "specializzato" - appunto quello degli "intermediari finanziari" - che, indebitandosi con i "depositanti di fondi" dei settori in surplus ed accreditandosi con i "prenditori di fondi" dei settori in deficit, sono riusciti a conciliare, per dire, le esigenze di entrambi,

precisamente quelle di maggiore liquidità e sicurezza per i "creditori" con quelle di maggiore durata e stabilità per i "debitori". E' così che depositi e prestiti bancari risultano rappresentare strumenti finanziari "indiretti": i primi sono titoli di credito per i depositanti e di debito per la banche, mentre i secondi sono titoli di credito per la banche e di debito per le imprese (o la stessa pubblica amministrazione) che s'indebitano nei riguardi delle banche, cosicchè i settori in deficit non sono direttamente debitori di quelli in surplus, nè quelli in surplus sono direttamente creditori di quelli in deficit, ma entrambi sono solo indirettamente "collegati" tramite l'intermediazione del sistema creditizio, risultando questo contemporaneamente settore creditore verso gli uni e debitore verso gli altri.

La questione per˜ si è, per dire, allargata e complicata nel momento e nella misura in cui si è verificato l'ulteriore e basilare fenomeno dell'utilizzo dei depositi bancari come moneta, e cioè dell'imporsi del processo di "moltiplicazione" dei depositi (o dei prestiti), comunque con un moltiplicatore di grandezza finita e calcolabile.

E' allora che i problemi di liquidità, sicurezza, stabilità, che vengono "smussati" a livello settoriale o microeconomico, non lo sono automaticamente e necessariamente a livello complessivo o macroeconomico; anzi si è posta via via con maggiore consapevolezza ed insistenza l'esigenza di individuare criteri e metodi vuoi di gestione oculata ed efficiente nelle differenti istituzioni finanziarie, vuoi di controllo pubblico della stessa stabilità ed efficienza per l'intero sistema. Esplicare tale controllo del sistema creditizio è stata una delle due funzioni che, nel tempo, sono state definite come quelle proprie della Banca Centrale, la funzione di Banca delle Banche, l'altra essendo quella di Istituto di emissione (con le necessarie garanzie di autonomia e discrezionalità) vale a dire come istituzione deputata alla quantificazione e gestione dell'ammontare di moneta complesivamente esistente e della sua crescita consentita in un'economia.

Invero, tale soluzione si è imposta solo a seguito della "svolta" impressa alla riflessione economica dalla teoria di Keynes e, quanto alla realtà, dalla grave crisi economica degli anni '30 che, dapprima negli Stati Uniti d'America e poi negli altri paesi occidentali (tra cui l'Italia), ha portato ad una gestione complessiva della politica economica e finanziaria secondo linee, appunto keynesiane, d'intervento e di controllo. Per i monetaristi, invece, il controllo del sistema creditizio non va affidato ad un'istituzione "pubblica" come la Banca Centrale, ma ad un'altra e distinta istituzione. Non solo; ma la stessa funzione dell'emissione della moneta da parte della Banca Centrale dovrebbe, per loro, prevedere la sola responsabilità - in base a "regole" che definiscano ciò in maniera rigida - di emetterla ad un tasso annuo costante e prestabilito, senza quella discrezionalità che, viceversa, i keynesiani invocano al fine provvedere al controllo - tramite interventi di "tonificazione" dell'economia - per quanto concerne sia il ciclo che la crescita di medio-lungo termine. E' chiaro che l'imporsi negli anni '80 delle teorie monetariste in molti paesi - specialmente in quelli anglosassoni - vi ha determinanto l'adozione di "regole" di quel tipo, con tutta una serie di conseguenze su cui qui non è possibile intrattenersi; ma impostazioni così "rigide" di stampo monetarista hanno oggi lasciato il campo quanto meno al prevalere di posizioni "più sfumate" e, a volte, al "ritorno" di quelle stesse di più netta impostazione keynesiana.

Tuttavia, oltre a questi aspetti macroeconomici di gestione e controllo del sistema creditizio, si è posto in modo più o meno netto, a seconda delle differenti realtà ed esperienze dei diversi paesi, il problema della maggiore o minore "appropriatezza" sul piano disaggregato di una certa o una certa altra struttura degli strumenti finanziari. A tal proposito, in particolare si sono venuti evolvendo in modi differenti, da una parte, il sistema finanziario "anglosassone", maggiormente orientato al "mercato" (dei capitali), e dunque maggiormente basato su strumenti finanziari diretti, e dall'altra quello "continentale", prevalentemente orientato al "credito bancario" e quindi fondato sul prevalere degli strumenti finanziari indiretti e del sistema creditizio, con l'ulteriore distinzione tra il caso "renano" della banca mista e quello "francese" incentrato sul ruolo del credito mobiliare. In quest'ultimo caso, le banche sostengono fortemente col credito a medio-lungo termine gli investimenti reali, mentre nel caso "renano"(o tedesco) risultano "coinvolte" con vere e proprie partecipazioni finanziarie al capitale delle imprese, essendo anche il caso - come in Italia - che, storicamente, si sono utilizzati entrambi i sistemi oltre che essersi fatto ricorso alla pratica del pre-finanziamento a valere sulle disponibilità accordate di credito ordinario o a breve termine.

Infine, quanto ad un più puntuale riferimento alla realtà italiana, deve ricordarsi in generale che la nostra è stata un'economia "ritardataria" sulla scena moderna dell'industrializzazione e comunque "dualistica" (intendendosi soprattutto tra Nord-Centro e Mezzogiorno) nell'esperienza del suo processo di crescita economica. Sul punto in oggetto, occorre più precisamente dire che essa si è orientata, dalla fine del secolo scorso, prevalentemente verso il modello francese ed in parte minore verso quello tedesco, imboccando poi - a seguito della crisi degli anni '30 - la strada della separazione "netta" fra il comparto del credito ordinario (le "banche" o "mercato monetario") e quello del credito a medio-lungo termine (gli "istituti di credito speciale" o "mercato creditizio"). Solo più recentemente, all'inizio di questi anni '90, si è optato per il superamento di tale separazione, nonchè per la stessa scelta di dare impulso e spessore, secondo il modello anglosassone, al "mercato dei capitali" (la "borsa" o "mercato finanziario").

E' chiaro comunque che - se ci si mantiene entro limiti "fisiologici" quanto a dimensione, stabilità ed efficienza - anche per l'intermediazione creditizia, come per altri casi di servizi d'intermediazione e di commercializzazione, non si tratterà mai di "sovrastruttura", bensì si potrà ben parlare di "struttura", vale a dire di un sistema d'interazioni fra settori reale e finanziario che si dimostra essere utile e necessario per il funzionamento complessivo di un'economia e per la sua crescita reale.

 

3. La contrapposizione teorica fra monetaristi e keynesiani.

Queste ultime considerazioni, dopo qualche altro richiamo già fatto, portano direttamente a trattare della questione del confronto fra le due contrapposte posizioni teoriche dei monetaristi e dei keynesiani - posizioni cui, in generale ed in particolare, occorre fare riferimento se vogliamo procedere "a ragion veduta" sulla strada della comprensione e valutazione dei fenomeni che qui c'intressano - quanto al ruolo assegnato e svolto dal sistema finanziario nell'ambito di un'economia (capitalistica o mista).

I "monetaristi" 9, come già richiamato, sostengono che la moneta e il credito non contano per gli andamenti dei fenomeni reali, essendo quindi "neutrali" da questo punto di vista ed influenzando solo il comportamento dei prezzi. Il punto di partenza nel loro ragionamento è l'idea che un sistema economico è naturalmente portato a trovare il suo proprio equilibrio, a risolvere i suoi propri squilibri, ad imboccare e mantenere ferma la strada della sua propria crescita: moneta e credito sono solo - come si dice - dei "lubrificanti", che servono ad intermediare tra i fenomeni reali, ma non più di tanto, e quindi non "precedono" questi, ma li "seguono", in quanto e nella misura in cui siano richiesti sulla base delle esigenze poste dall'ammontare e dall'evolversi delle grandezze reali. Anzi, se si previene l'andamento reale o si eccede quanto all'offerta così come alla crescita di moneta e credito, ne deriveranno solo scompensi inflazionistici e, in definitiva, squilibri nella "naturale" composizione ed evoluzione dei fenomeni complessivi. Segue la "ricetta" di un tasso annuo dato e costante di andamento della quantità di moneta e di credito e, più in generale, quella di volersi comunque astenere da qualsiasi intervento dello Stato nell'economia a parte quelli destinati a garantire "la legge e l'ordine", sia all'interno di un paese che nei rapporti internazionali.

La posizione dei "keynesiani" 10, viceversa, è che moneta e credito contano per gli andamenti dei fenomeni reali, essendosi sempre in presenza di molteplici interazioni fra grandezze reali e finanziarie, e quindi moneta e credito non potranno mai dirsi "neutrali" rispetto al livello dell'attività produttiva, dell'occupazione, e della crescita reale in un'economia. Il punto di partenza nel ragionamento è qui rappresentato dall'idea che ogni sistema socio-economico è frutto di scelte e convenzioni fra i soggetti, essendo sempre espressione della fondamentale natura umana, ma rimanendo certamente legato alla temporalità e pluralità delle vicende concrete. In particolare, risultano essere fenomeni convenzionali le credenze e le attese sui fatti economici, tra cui spiccano quelle sui "rendimenti" e gli "interessi" fruibili dalle attività di investimento e di produzione, nonchè di prestito (credito e debito), che gli operatori si aspettano di ottenere in un dato momento di tempo e nel tempo. E' da questo punto di vista che specificamente riescono a giocare un grosso ruolo gli andamenti della moneta e del credito: in effetti, gli strumenti finanziari vanno creati d'anticipo rispetto agli stessi fenomeni reali, al fine di stimolarli, guidarli e sostenerli, più o meno a seconda delle situazioni; ed è qui che, se i mercati e gli intermediari non sono sufficientemente "solerti" o "coraggiosi", entra in gioco la politica economica e finanziaria, con l'intento di influenzare ed incanalare nella direzione dello sviluppo e della stabilità le scelte e le opzioni di tutti gli operatori, sul fronte reale come su quello finanziario. I fenomeni inflazionistici non necessariamente sono connessi agli andamenti della moneta e del credito e mostrano avere cause e motivazioni molteplici e più complesse, così come gli strumenti finanziari non solo e non tanto influenzano l'andamento dei prezzi quanto anche e soprattutto - come già detto - quello del reddito, dell'occupazione, dello sviluppo economico.

E' chiaro che, mentre sul piano logico entrambe le posizioni possono avere "titolo valido" e "diritto di cittadinanza", questo non sembra essere il caso sul fronte epistemologico ed anche su quello etico (sul quale ultimo aspetto mi intratterrò specificamente più oltre), così come - storicamente e quantitativamente - non sembra riscontrino pari "successo" quanto allo accertamento empirico degli andamenti rispettivi, nella realtà concreta, delle grandezze reali e finanziarie. Colgo poi l'occasione a questo punto per richiamare l'attenzione sul fatto che tutto quanto sono finora venuto dicendo - a parte sporadici cenni più ampi - è stato riferito (come tecnicamente si dice) a sistemi economici chiusi, mentre qualcosa di più specifico occorrerà dire, e lo farò qui di seguito, a proposito degli andamenti in contesti finanziari "aperti" ai rapporti internazionali.

 

4. I movimenti di capitali e i mercati finanziari.

Come si sa e si è già ricordato, negli ultimi anni i mercati finanziari hanno conosciuto una forte espansione, e ciò non soltanto nelle economie che da antica data privilegiavano gli strumenti finanziari "orientati al mercato", ma anche in quelle che tradizionalmente erano più inclini a basarsi su strumenti "orientati alle banche", vale a dire da New York e Londra a Tokio, Francoforte, Parigi, Milano, Madrid. Trattasi, inoltre, di mercati finanziari tutti, quale pi quale meno, caratterizzati oggi da notevole "integrazione" internazionale, nel senso che si quotano e negoziano titoli di ogni genere, sia interni che esteri, come pure emessi dalle Istituzioni monetarie internazionali (FMI, BM, etc.; aspetto sul quale non è ovviamente possibile intrattenersi in questa sede), sia principali che derivati, come pure - mercato assai rilevante - le valute o divise estere, nonchè i titolo "stilati" in valuta.

Si noti, più specificamente, che la funzione dei mercati finanziari - dove si trattano titoli di ogni tipo e valute estere - non va scambiata per quella dei "movimenti internazionali di capitali". Questi ultimi, si sa, sono parte dei rapporti economici con l'estero di un paese, in quanto attengono al cosiddetto conto capitale di tali rapporti - i quali vengono complessivamente contabilizzati nella bilancia dei pagamenti (con l'estero) di un'economia - e consistono nell'afflusso di valuta per i movimenti in entrata e nel deflusso di valuta per i movimenti in uscita. Al di là degli aspetti tecnici, qui preme sottolineare che spesso un'economia - e specialmente un'economia "in via di sviluppo" - riesce a supplire al deficit di risparmio interno, rispetto agli investimenti necessari, tramite il ricorso al risparmio esterno, il che si attua proprio nella forma di detto afflusso di valuta, mentre quelle economie che sono in surplus di risparmio interno rispetto agli investimenti realizzati tendono ad effettuarne l'impiego all'estero, il che si attua appunto nella forma di deflusso di valuta.

E' chiaro ovviamente che queste valute, insieme a quelle rivenienti dalle operazioni di esportazione ed importazione di beni e servizi, "transitano" per i mercati finanziari, dove costituiscono appunto il "comparto" delle valute o divise estere, negoziate sia "a pronti" che "a termine", così come vengono negoziati i titoli in valuta ed i loro "derivati". Tuttavia, oltre ai movimenti internazionali di capitali che si effettuano da economie in surplus a quelle in deficit di risparmio per finanziare investimenti ed attività produttive reali, vi sono quei movimenti cosiddetti "di denaro caldo" che si effettuano con rapidità sempre maggiore e per ammontari sempre più rilevanti al fine di "lucrare" differenze di rendimento del denaro impiegato a breve e brevissimo termine. Trattasi in questo caso di movimenti di fondi che sono sostanzialmente "in cerca di" rendite finanziarie e che, più precisamente, hanno carattere speculativo in quanto sono essi stessi a provocare le differenze di rendimento "cercate", in particolare tramite variazioni indotte dei tassi di cambio tra valute; essi pertanto sono fonte di forti preoccupazioni per le Autorità monetarie interne (Banche Centrali) ed internazionali, le quali non sono spesso in grado di gestire e controllare movimenti di fondi tra paesi sempre più consistenti e fluttuanti 11.

Invece - si ricordi sempre - i mercati finanziari sono nati e si sono affermati, anzitutto, all'interno di un'economia al fine di consentire in generale il "passaggio" dei fondi, tramite diversi tipi di strumenti, dai settori in surplus (in particolare le famiglie) a quelli in deficit (in particolare le imprese). Peraltro va aggiunto che non tutto il risparmio finanziario (sostanzialmente delle famiglie) si traduce in finanziamento degli investimenti (sostanzialmente delle imprese) e, dunque, in risparmio reale. Allora, nella misura in cui tale surplus viene convogliato per "coprire" un deficit di altri settori che lo impiegano per finanziare spese correnti superiori alle proprie entrate (com'è noto, questo è stato il caso per tanta parte del finanziamento del deficit del settore pubblico nell'esperienza recente del nostro paese), non si determina alcun risparmio reale complessivo e quindi non si finanzia alcun processo di accumulazione e di crescita reale, benchè si possa provvedere ad altre esigenze, anche importanti, quale quella dello "spostamento" di risorse dai consumi privati a quelli pubblici, o dai consumi di certe categorie di cittadini a quelli di altre (cui però si dovrebbe poter provvedere con entrate ordinarie, ed in particolare con la tassazione).

Quest'ultimo non è però l'obiettivo per il quale sono nati e si sono affermati i mercati finanziari, il cui compito precipuo - al di là di quanto potesse essere fatto nei rapporti immediati tra offerenti e richiedenti fondi e parallelamente al ruolo svolto dal sistema bancario, ed in particolare dal comparto del "mercato creditizio" così come distinto da quello del "mercato monetario" - è stato quello (abbiamo visto) di consentire, tramite rapporti "impersonali" e strumenti (titoli) finanziari "diretti", negoziati sul "mercato finanziario", proprio la diversificazione e l'assicurazione del rischio che sempre comportano lo spostamento e l'uso di fondi in operazioni di credito e debito. Dovevano così essere garantiti gli interessi sia dei sottoscrittori dei titoli e fornitori dei fondi, che degli emittenti dei titoli e prenditori dei fondi, soprattutto nella misura in cui - com'è stato tipicamente il caso - gli stessi venissero usati per finanziare investimenti di largo impegno ed a produttività differita quali (ad esempio) quelli per grosse infrastrutture come le ferrovie o le autostrade.

In effetti, gli economisti monetaristi insistono esclusivamente su questo punto - come si può vedere dalle posizioni anche recenti ed emblematiche di M.Friedman 12 - laddove, invece, la situazione che si è venuta via via configurando e com'è comunque oggi prevalente (per i motivi ed i processi che preciserò tra un momento) risulta essere completamente diversa. Va allora precisato, una volta per tutte, che un conto è l'obiettivo per il quale i mercati finanziari sono nati e che essi hanno anche realizzato in una certa fase storica (diciamo, nel secolo XIX), ovvero un conto è quella che si vorrebbe fosse la funzione "autentica" del loro modo di essere e lavorare, e invece un conto assai diverso è quello che si ottiene analizzando l'esatto modo di essere e di funzionare dei mercati finanziari nella realtà concreta delle economie capitalistiche, ed anche miste, almeno dalla fine del secolo scorso e più in particolare in questi ultimi anni.

Come già Knight e Keynes 13 - per citare solo due maggiori tra gli economisti anti-neoclassici - avevano ampiamente ed approfonditamente argomentato e com'è più che evidente da qualsiasi analisi specifica che sia stata fatta per questi nostri anni della seconda metà ed in particolare della fine del secolo XX, i mercati finanziari si sono venuti sempre più "allargando" e "allontanandosi" da quella funzione specifica d'intermediazione diretta tra offerta di fondi in cerca d'impiego redditizio ed occasioni d'impiego degli stessi in attività d'investimento produttivo.

Intanto, occorre ricordare le negoziazioni sempre più consistenti sui cosiddetti mercati "secondari", negoziazioni che, essendo relative a titoli già esistenti, li fanno soltanto "passare di mano", ed in particolare si concentrano su titoli che sono ricercati da operatori "istituzionali" interessati meno ai rendimenti prospettici dei titoli stessi che ai guadagni "in conto capitale" o rendite finanziarie che si aspettano di realizzare sulla base della "lievitazione" del corso dei titoli; il che è più spesso "provocato" (quando riesce) - così come accade nel caso già ricordato delle divise estere - proprio dall'attività di compra-vendita dei titoli, vale a dire da un'attività speculativa che ha fatto, come fa tuttora, parlare di attività simili alle "scommesse" o ai "giochi d'azzardo". In secondo luogo, tutto questo si ritrova "amplificato", anzi "ingigantito", parecchie e parecchie volte, in quanto sempre più sono venute moltiplicandosi la quantità e proliferando la varietà dei titoli "inventati" e trattati ad hoc, soprattutto quanto a quel tipo di strumenti finanziari che si differenziano nettamente dai titoli "sottostanti" e quindi non hanno alcuna "controparte" nell'economia reale. Si tratta - come già rilevato - dei cosiddetti titoli puri , titoli che negli ultimi anni hanno preso definitivamente il predominio sui mercati finanziari, vale a dire i titoli derivati o "titoli su titoli" ("futures", "options", etc.) e, ancora più in particolare, i titoli cosiddetti "di seconda generazione" o titoli sintetici. E' allora evidente in che senso tutto ciò si traduca in un potenziamento del "momento speculativo" delle operazioni e delle negoziazioni che si moltiplicano e si moltiplicano senza sosta sui mercati finanziari contemporanei: attraverso un meccanismo "associativo" che coinvolge, sempre più spesso, i continui spostamenti da uno all'altro "pacchetto" di più strumenti "derivati" insieme (com'è il caso, in particolare, con i "sintetici"), si punta a guadagni "differenziali" sempre più alti, ma si corrono anche rischi "differenziati" sempre maggiori in quanto, proprio, afferenti alla congiunta applicazione di più contratti "derivati" insieme.

E' allora che si giustifica pienamente la tesi specifica dei keynesiani secondo la quale i mercati finanziari sono sempre più guidati dalla speculazione. Era già evidente, prima ancora dell'invasione degli strumenti finanziari derivati, che al grosso degli operatori "istituzionali" sempre più dominanti sui mercati, quali le società o compagnie finanziarie, ciò che preme è la ricerca continua e spasmodica dell'impiego di fondi in titoli sempre diversi, titoli che appunto sono "passati di mano" continuamente e sui quali - "a turno" - si concentra l'attenzione della domanda in quanto domanda "speculativa"; cosicchè il corso dei titoli sale, al di là di ogni legame con il loro valore "reale" o comunque "di partenza", il che porta o, meglio, dovrebbe portare, al momento del "realizzo", ad intascare un (più o meno alto) guadagno "in conto capitale" o meglio "speculativo". Va da sè che, in una situazione in cui dominino tali attività speculative, vi sia sempre chi perde così come chi guadagna: infatti, allorchè si mantengano prevalenti le aspettative ottimistiche, le cose "vanno bene" per i più; ma il contrario accade quando la situazione "s'inverte" e si diffondono le aspettative pessimistiche, che possono anche sfociare in condizioni vere e proprie di panico e di "catastrofe" finanziaria.

E' così che, anche indipendentemente dalla presenza, oggi massiccia, dei derivati, si comprendono e si spiegano le gravi e ricorrenti crisi finanziarie delle economie capitalistiche che, solitamente, cominciavano alla borsa di New York e si diffondevano poi alle altre principali piazze borsistiche del mondo, come in particolare la crisi gravissima dell'ottobre 1929 e quella assai più recente, meno acuta, ma più problematica, dell'ottobre 1987, crisi quest'ultima che - fino alle recentissime e gravi turbolenze dell'ultimo anno - è stata la più seria dopo quella "classica" del 1929.

Va in proposito ribadito, tra l'altro, che - mentre nel 1929 non erano disponibili e non potettero quindi essere usati adeguati strumenti d'intervento e di controllo della crisi da parte delle Autorità Monetarie, nè da parte delle altre Istituzioni pubbliche - la situazione è stata completamente diversa nel 1987, allorchè gli strumenti di politica monetaria e d'altro tipo erano disponibili e gli interventi vi sono stati ed hanno funzionato. Ci˜, d'altronde, si è realizzato nel solco dell'impostazione keynesiana che, criticata e messa da parte proprio nella prima parte degli anni '80 a seguito (come già ricordato) della "ripresa" delle posizioni monetariste, tornava così a riproporre la sua validità e vitalità. Non solo, ma è evidente come validità e vitalità delle "ricette" keynesiane non possono che "uscire vincenti" nelle condizioni odierne dei mercati finanziari, "schiacciati" - come sempre più sono - dal peso ingombrante e preoccupante dei derivati e dei derivati dai derivati.

 

5. I mercati finanziari e l'imporsi dei titoli derivati.

Se ora ci interroghiamo sui motivi per i quali ai nostri giorni si sono avute un'enorme proliferazione dei titoli e contratti di ogni tipo ed una corrispondente amplificazione dei mercati finanziari, la risposta investe, sul piano tecnico, due ordini di considerazioni 14.

La prima riguarda l'aspetto, già richiamato altre volte nelle pagine precedenti, che si riferisce appunto al moltiplicarsi e diffondersi dei titoli derivati e soprattutto dei derivati dai derivati, il cui collegamento con l'economia reale è inesistente, mentre l'ammontare di essi titoli oggi trattati è assai maggiore di quello degli altri strumenti finanziari, in particolare in alcune borse iper-specializzate, ed ormai riguarda un ordine di grandezza di parecchi miliardi di dollari al giorno. In secondo luogo, occorre fare riferimento al ruolo della cosiddetta "tecnologia informatica", vale a dire al fatto che - a partire dal famoso "Big Bang" verificatosi alla borsa di Londra nel 1986 - oggi la negoziazione di titoli si riduce all'uso di un tasto ed all'invio di un comando su un elaboratore elettronico ("computer"), cosicchè tutto oggi avviene a costo bassissimo e sostanzialmente senza che intercorra alcun lasso di tempo.

E' evidente che entrambi i processi non potevano non portare al moltiplicarsi ed al sovrapporsi continuo delle decisioni di compra-vendita di titoli, nonchè all'aumento dell'anonimità e dell'intensità concorrenziale nelle negoziazioni, al prevalere di quelle "al margine", al diffondersi della forte volatilità dei corsi dei titoli in tutti i mercati finanziari: concetto quest'ultimo da intendersi nel senso specifico di continue e forti oscillazioni, in su e in giù, dei prezzi dei titoli, con aumenti o diminuzioni che appunto "evaporano" con grande facilità rispetto a qualsiasi livello (temporaneamente) raggiunto dei prezzi stessi. Ne derivano serie conseguenze sul modo "frenetico" in cui si formano e si riformano le aspettative quanto al possibile andamento dei prezzi e delle quantità negoziabili dei diversi titoli e sullo stesso andamento dei fenomeni reali comunque collegati, e dunque in termini di contraccolpi negativi proprio quanto a quell'efficienza nella direzione dei flussi di fondi che, invece, era e doveva essere compito specifico dei mercati finanziari garantire ed incentivare.

In effetti, tale "calo" di efficienza si pu˜ più specificamente comprendere sulla base di alcuni fenomeni, di cui occorre sempre tener conto in economia (e non solo in economia), quali le esternalità, la dipendenza delle decisioni dalle "notizie" più che dai cosiddetti "fondamentali" riguardanti le economie considerate, la moda di guardare, come guida per la decisione e l'azione, più agli andamenti "stilizzati" passati dei corsi dei titoli ("tradotti in grafici") che ad un'analisi prospettica dei possibili andamenti futuri, ovvero la cosiddetta analisi "tecnica" anzicche quella "fondamentale".

Senza che sia qui il caso di entrare in dettagli, vale la pena rilevare che il primo fenomeno concerne il fatto che, anche se l'efficienza è perseguita, essa non è realizzata per il fatto che - nelle condizioni prevalenti - predominano appunto degli importanti effetti esterni negativi, quali quelli dei noti casi dello "azzardo morale" (o "incentivo avverso") e della "selezione avversa": i primi giacchè gli "incaricati" delle negoziazioni si spingono assai più in là di quanto sia nell'interesse delle unità o compagnie "titolari", essendo per gli incaricati "in ballo" soltanto la propria provvigione o percentuale laddove, invece, per le unità o compagnie entra in gioco, nei guadagni o nelle perdite, l'intero valore delle operazioni coinvolte; i secondi effetti in quanto gli operatori, essendo interessati ad un alto guadagno comunque, sono spinti a "scegliere" le operazioni che si presentano come più redditizie ma anche più rischiose, tralasciando proprio quelle relative ai titoli rappresentativi del finanziamento degli investimenti reali che si mostrano come meno redditizie e meno rischiose. E sono chiaramente l'esistenza, anzi il predominio, dei titoli derivati, quelli "puri" ed a maggior ragione i "sintetici", il loro proliferare e moltiplicarsi di anno in anno, il conseguente ampliarsi della "volatilità" dei prezzi su tutti i mercati finanziari, che portano a concludere che il ruolo di tali esternalità negative è in forte aumento; cosicchè, proprio sul piano tecnico, si perviene alla conclusione di un giudizio di crescente inefficienza "complessiva" del loro funzionamento.

Tale conclusione è rafforzata dal ruolo ugualmente negativo svolto dagli altri due aspetti sopra richiamati che concernono il peso crescente delle "notizie" e delle "mode", rispetto a quello dei "fondamentali" e delle analisi "prospettiche", quanto ai possibili andamenti del corso dei titoli; su entrambi i punti, per˜, non è qui possibile entrare nel merito.

Allora, per capire e spiegare meglio la realtà delle cose, ritengo che occorra riprendere quanto detto sopra in tema di contrapposizione fra le tesi keynesiane e quelle monetariste a proposito del ruolo svolto dai mercati finanziari in genere; in quanto non pu˜ non valere anche ed a maggior ragione in relazione al funzionamento odierno di tali mercati, dominati come sono dagli strumenti "derivati" di ogni tipo. Il punto in discussione - va ricordato e sottolineato - non riguarda ciò che sarebbe utile che fosse o ciò che dovrebbe essere, bensì quella che in effetti è la situazione. Orbene, è sempre più evidente che, nella realtà concreta del funzionamento dei mercati finanziari, non è proprio possibile sostenere che contano i "fondamentali" gli andamenti "naturali" dei fenomeni (reali) di un'economia, con riferimento ai quali fenomeni - come sostengono i monetaristi - essi mercati sempre, prima o poi, si muovono, anche quando i titoli si moltiplicano e si diversificano al punto, per dire, da "vivere di vita autonoma" e da "identificarsi" con le attività speculative che sono ancora riguardate (dai monetaristi) come stabilizzanti e benefiche. In effetti, invece, sempre più e sempre più "autonomamente", contano proprio quelle convenzioni le quali, keynesianamente, si è portati ad affermare che sono sempre più alla base dei comportamenti delle grandezze finanziarie e degli andamenti dei fenomeni finanziari, e tante volte non soltanto in campo finanziario.

Ma il punto cruciale qui è che, oggi più che agli stessi tempi in cui rifletteva e scriveva Keynes, tale situazione è diventata così "squilibrata" che, oggi più che mai, non può assolutamente essere lasciata a se stessa e necessita, senza alcun dubbio, di interventi e controlli che - tra l'altro - neanche possono essere effettuati come compito precipuo delle Autorità monetarie interne di ogni paese. L'enorme dimensione dei fenomeni implicati, la continua trasformazione e proliferazione dei titoli trattati, l'incessante ricerca di titoli sempre nuovi e sempre più "autonomi", e la stessa crescente "globalizzazione" dei mercati anche nel contesto considerato, esigono tutte che di tale compito si facciano carico le Istituzioni monetarie internazionali o comunque che siano coinvolti gli sforzi interdipendenti e coordinati delle Istituzioni di politica economica e monetaria dei vari paesi.

 

6. Considerazioni sull'etica della finanza. Aspetti generali.

Nella relazione dello scorso anno, passavo a questo punto ad occuparmi delle questioni di ordine etico che si pongono, come in tutti i casi consimili, anche a proposito del funzionamento vuoi dei mercati finanziari vuoi degli intermediari creditizi, così come si presentano e si configurano alla luce di tutto quanto sopra esposto, nonchè a proposito degli effetti che ne derivano sui comportamenti ed il benessere delle persone e delle modifiche cui occorrerebbe porre mano al fine di influenzare i primi e perseguire il secondo. Come si comprende, le valutazioni formulate, le conclusioni raggiunte, e le proposte avanzate venivano tratteggiate dall'angolo visuale della morale cristiana, in particolare di quella espressa nella dottrina sociale della Chiesa cattolica.

Intanto, cominciavo col riconoscere che un discorso così grosso non poteva certamente, già in quella sede, essere affrontato nei suoi presupposti di fondo e nei suoi risvolti generali, con riguardo al problema dei rapporti tra etica ed economia 15, con riferimento al tema complessivo, più specifico ma pur sempre ampio, dell'etica del risparmio (reale), dell'accumulazione del capitale, della crescita economica 16. Mi ero allora proposto il compito - più limitato ma assai rilevante e comunque direttamente attinente alle problematiche in oggetto - di soffermarmi sulla valutazione da formulare, dal punto di vista morale, o meglio della morale cristiana così come precisata nella dottrina sociale cattolica, sugli aspetti del "finanziamento" dell'economia e della sua crescita, e più in particolare quanto a funzionamento, effetti, implicazioni degli odierni mercati "finanziari" e "creditizi" (come si dice in una parola, della "finanza"), nonchè su alcune indicazioni da proporre - quanto a possibili "criteri" o "regole" di condotta di cui avvalersi - sul fronte privato, ma soprattutto pubblico, ed anche del "privato sociale", nei campi che rispettivamente riguardino essi mercati: in una parola, sui temi cruciali dei "rapporti fra etica e finanza".

In questa sede, non può che essere ribadita quella posizione, con l'aggiunta che - per la natura stessa del nostro gruppo di lavoro e della più ampia assemblea che ci vede riuniti a dibattere - avremo in merito lo specifico apporto del teologo morale e dell'esperto in dottrina sociale della Chiesa, oltre che il commento più puntuale dell'economista. Tuttavia, prima di passare a riflettere più specificamente sulle ultime vicende e turbolenze dei mercati finanziari internazionali, non posso esimermi dal riprendere in sintesi i punti che mi stanno più particolamente a cuore.

In primo luogo, ero e sono convinto che occorre cercare di "sgombrare il campo" da una interpretazione, possibile ma non condivisibile, del discorso relativo all'"etica della finanza": dal punto di vista dei rapporti, in generale, tra economia e morale e, più in particolare, tra finanza e morale, ritengo che non basti fare riferimento a quella che viene caratterizzata come un'etica cosiddetta "interna" alle questioni trattate, intesa cioè nel senso di una deontologia specifica della "professione" del finanziere, dell'operatore di borsa, del banchiere, e via discorrendo. Un punto di vista come questo, che pure riscuote oggi grande attenzione e che, tra l'altro, pu˜ essere ricompreso in quella che si chiama "etica degli affari" 17, è in realtà insoddisfacente dall'angolo visuale qui perseguito, rappresentando - per dire - un aspetto di condizioni necessarie, ma non sufficienti, acchè si consegua un legame "pieno" fra premesse di valore di tipo morale e leggi o proposizioni economiche. E' invece sempre necessario - a mio modo di vedere - fare riferimento sia a posizioni etiche che a proposizioni economiche intese entrambe in senso generale, e ciò vuoi che ci si occupi di aspetti teorici ed astratti vuoi anche allorchè si abbia riguardo a questioni empiriche e pratiche; giacchè non si può mai prescindere - si abbia a che fare con analisi e riflessioni, così come con scelte pratiche e concrete, di profilo economico o finanziario, ma del resto anche in quanto esse afferiscano ad ambiti più ampi (si pensi alla bioetica) - dai significati e dalle implicazioni più generali del proprio riflettere o del proprio agire 18.

In definitiva, occorre a mio giudizio muoversi, in argomento, tenendo conto del fatto che si tratta di delimitazione di campo, non di ottica, e passando in questa prospettiva a precisare le premesse di valore etico da porre a fondamento, alla luce della morale sociale cattolica, delle valutazioni che siamo chiamati a dare sul funzionamento sia dei mercati finanziari che degli intermediari creditizi, così come sulle implicazioni che ne derivano in termini di "benessere" delle persone, nonchè dei suggerimenti che da esse valutazioni sono rivenienti quanto a "criteri" di condotta da perseguire ed a "regole" di disciplina e controllo da adottare per l'operare dei mercati e delle istituzioni in considerazione.

Allora occorrerò fare riferimento almeno ai seguenti quattro punti 19. Primo, va tenuto conto del vincolo derivante dal fatto che l'uomo è "preposto" ad una "corretta" gestione di tutte le risorse del creato, che sono intese per la sua esistenza, non per abuso, spreco o distruzione. Secondo, va ripresa l'idea che l'uomo è "chiamato" a "partecipare" o "collaborare", col suo lavoro e più in generale con la sua vita, alla stessa opera creatrice di Dio e redentrice di Gesù, cosicchè sia il lavoro che la vita vanno intesi al contempo come un "diritto" ed un "dovere", ed ancora come diritti e doveri a livello sia soggettivo e individuale che oggettivo e sociale. Terzo, si tratta di fare riferimento all'altro vincolo per l'uomo consistente nel "mettere a frutto", ancora sul piano sia individuale che sociale, le sue proprie e specifiche risorse, i "talenti" che gli sono stati dati e di cui poi sarà "chiamato" a dar conto 20. Infine (last but not least), c'è il precetto, che è al contempo generale e concreto, della condivisione, aspetto da intendersi come "proiezione" di ognuno verso l'altro, nella prossimità sia vicina che meno vicina, ed in particolare verso i "poveri" e i "bisognosi" in ogni senso, nonchè sia all'interno di una comunità e di un paese, che nei riguardi di tutti gli altri uomini e popoli 21.

E' noto d'altronde che, a fronte delle istanze "di fondo" di morale sociale come sopra precisate (ma simili basi potrebbero essere indicate per alcune altre e "convergenti" posizioni etiche), si pongono - com'è il caso che sia - postulati diversi da quelle, nonchè differenti fra loro, quanto sia ai fondamenti delle teorie economiche che ai requisiti di base posti dalle stesse etiche di tipo "interno" cui mi sono riferito sopra.

Quanto ai postulati delle teorie economiche, sappiamo che si tratta di assunti specifici della disciplina "economia" - tra l'altro, nata con A. Smith (1776) proprio in alternativa alle "regole" della filosofia morale - tutti riconducibili, in vario modo, al concetto di interesse personale ("self-interest"). Questo, com'è noto, si traduce negli assunti di razionalità (economica), ottimizzazione, efficienza, concetti tutti che - senza che sia qui il caso di parlarne specificamente - si riferiscono all'obiettivo, perseguito dai soggetti secondo l'ottica propria dell'economia, di ottenere il massimo risultato dati i vincoli, mezzi, strumenti (anche finanziari) che sono o si rendono disponibili, oppure a quello di conseguire il minimo impiego di mezzi dati i fini "alternativi" che sono stati prescelti per le attività considerate. Orbene, come economista non ho dubbi che si tratti di concetti ed obiettivi della massima rilevanza, sol che si pensi a quanta strada è possibile ed utile fare - ed è stata fatta nella concretezza di molte esperienze storiche - sulla base dell'adozione ed applicazione delle proposizioni che ne derivano per i comportamenti a livello sia individuale che sociale.

Ma l'economia non è certo tutto, cioè non è esaustivo per il benessere delle persone un discorso incentrato soltanto sulla disponibilità e l'impiego delle risorse reali e finanziarie per il conseguimento di fini ed il soddisfacimento di bisogni - anzi, più propriamente, di "preferenze" o "desideri" - che sempre dall'economia sono supposti dati anche se poi, in realtà, risultano essere vieppiù "condizionati", "manipolati", ed "indotti" dagli stessi meccanismi economici. Il punto è che ci si è venuti sempre più interrogando sull'effettiva validità di questo assunto dei "fini" o "bisogni" che l'economia sembra troppo sbrigativamente e inavvedutamente prendere come dati, laddove invece occorre riflettere e dibattere esplicitamente proprio sulle premesse di valore morale che "sottendono" quei dati, farle "venire allo scoperto", intenderle specificamente (come dev'essere) quali "vincoli" posti all'attività economica (e finanziaria), col fine di pervenire ad individuare "criteri" e "regole" che ne derivino per il comportamento dei singoli ed il funzionamento delle istituzioni.

Quanto poi all'"insufficienza" dei vincoli morali rivenienti da impostazioni del tipo "etica degli affari", si può vedere più concretamente - oltre che in base al discorso "deduttivo" fatto sopra - che questo è il caso considerando quelli che sono i criteri di condotta che sono stati enucleati in quei contesti. Si è parlato di improntare i comportamenti e di valutare gli andamenti delle grandezze economiche e finanziarie secondo parametri quali la fiducia, l'onestà, la correttezza, l'imparzialità, la trasparenza, la professionalità, l'autodisciplina, l'assunzione responsabile del rischio, l'organizzazione democratica del potere decisionale, ed altri ancora dello stesso genere. Il punto qui è che, messe così le cose, si tratta di parametri che vanno certamente condivisi tutti, ma che non possono soddisfare pienamente chi ritiene che - al fine di qualificare come "eticamente valida" una certa condotta - occorra un di più da soddisfare, un di più che si può acquisire solo una volta che ai requisiti richiesti si dia una valenza universale ed ontologica che è indispensabile conseguire proprio sulla base di un'impostazione quale quella del discorso che ho inteso partare avanti.

In effetti, tale "valenza" può essere acquisita solo una volta che procediamo sulla base di un'impostazione che "parta" da indicazioni di etica sociale che portano all'individuazione di principii generali quali, in particolare, quelli sopra richiamati: i principi della responsabilità, dell'iniziativa, della sussidiarietà, della reciprocità, della solidarietà, della carità, principi tutti sui quali si è scritto e dibattuto tanto che non è proprio il caso di dire alcunchè in questa sede.

 

7. Alcune proposte specifiche. 

E' così che, a conclusione delle argomentazioni svolte, passavo nella relazione a definire alcuni "criteri di condotta" - che occorrerebbe soddisfare pienamente - tali che i "vincoli etici" alla condotta individuale e collettiva, nelle istituzioni così come nei mercati, per l'intera gamma della realtà economica, reale e finanziaria, siano sempre riconducibili ad istanze morali di fondo e, pertanto, veramente aggiuntive rispetto ai presupposti adottati in sede di "etiche speciali" (degli affari o delle professioni) e più che mai rispetto agli assunti del discorso economico. Proprio la riflessione sui rapporti fra etica e finanza porterebbe allora a dire qualcosa di valido in senso generale ed oggettivo, e quindi sulla base di istanze morali di fondo, sui "vincoli" che il discorso etico pone a quello specifico ambito dell'agire economico che concerne gli strumenti finanziari e creditizi. Solo così si perverrebbe a comportamenti che, in quanto derivanti da "vincoli" stabiliti sulla base di posizioni etiche di tal tipo, consentano alle proposizioni economiche in oggetto di compiere un "salto di qualità" proprio tramite il riconoscimento e l'appagamento di esigenze ed istanze che siano veramente aggiuntive rispetto ai requisiti rivenienti dagli assunti del discorso economico (e finanziario), così come ai criteri convenuti sulla base dei parametri delle varie etiche "interne", nonchè - come sappiamo - a tutte le posizioni espresse dalle teorie etiche di tipo "utilitaristico", "soggettivistico" e "relativistico".

In particolare, si perverrebbe ad individuare alcuni diritti e doveri specifici che - anche nel campo delimitato di cui ci stiamo qui occupando - si possono riassumere in modo che, a fronte di un "diritto" affermato per gli uni, non vi può non essere un corrispondente "dovere" da parte di altri. Esemplificando, sul fronte dell'intermediazione creditizia parlavo, insieme al maggiormente "consolidato" diritto alla tutela del risparmio (finanziario) 22, di un diritto al credito e di un diritto a certi "modi" e "tassi" nell'erogazione del credito. Tra l'altro - senza naturalmente entrare in dettagli - indicavo che ha senso, in proposito, cogliere vuoi un collegamento con le posizioni "laiche" in termini di libertà positive vuoi ed in particolare un fondamento nell'impostazione "cristiana" sull'uguale dignità di ogni e qualsiasi uomo "creato ad immagine e somiglianza di Dio" 23.

Ancora, sul piano reale-finanziario, parlavo di un diritto all'investimento ed a certi "modi" e "tassi" per il suo finanziamento, mentre quanto al più specifico ambito monetario mi riferivo ad un vero e proprio diritto alla salvaguardia del valore della moneta 24. Nel campo dei movimenti internazionali dei capitali a medio-lungo termine (tralasciando qui, ratione materiae, la pur cruciale questione degli scambi e dell'andamento delle "ragioni di scambio" tra paesi a differente grado di sviluppo economico), parlavo di un diritto al finanziamento internazionale dello sviluppo, con l'ulteriore distinzione tra un diritto agli aiuti ed un diritto a certi "modi" e "tassi" nella concessione dei prestiti 25.

Sul fronte specifico dei mercati finanziari "interni" e degli impieghi di capitali liquidi a breve termine, parlavo - dalla parte dei cittadini e con particolare riguardo all'Italia - di almeno due diritti "in parallelo": in positivo, di un diritto alla tutela del risparmio (finanziario), risparmio che sempre più s'indirizza oggi verso gli impieghi in titoli; e, in negativo, di un diritto alla messa al bando dei guadagni "facili" e "da bisca", guadagni questi rivenienti - in particolare - da quelle attività puramente speculative che sono gli spostamenti di fondi continui, concentrati, frenetici e "ballerini" da un titolo all'altro, ed in particolare da un titolo derivato all'altro. Notavo poi che il riconoscimento dei diritti e l'adempimento dei corrispondenti obblighi a quest'ultimo proposito non possono non "partire" dall'attenzione da concentrare sulla sostanziale irresponsabilità di quei comportamenti in ambito finanziario che si pongono - come accade sempre più spesso - sulla strada esclusiva della speculazione su titoli di ogni genere, soprattutto su quelli derivati, "puri" e "sintetici". Si tratta di comportamenti "immorali" e che diverse volte diventano "illegali", rispetto ai quali si sente invocare, da più parti e sempre più spesso, l'improcrastinabile necessità di interventi pubblici per "bloccarli" o in ogni caso sottoporli a "ferrea" disciplina. Tra l'altro, trattandosi di temi della massima rilevanza che, però, vanno affrontati con specifica competenza, dalla continua e spregiudicata "finanziarizzazione" dell'economia risultano trarre impulso tutti quei fenomeni di truffe, riciclaggio di "denaro sporco", usura, che sono diventati e diventano sempre più tristemente noti nel nostro paese.

Ricordavo naturalmente che tutte le questioni richiamate si pongono non solo sul piano "interno", ma anche e soprattutto - comportando fenomeni di rilevante incontrollabilità - a livello dei movimenti internazionali di fondi, sempre più spesso dominati, al posto degli spostamenti di capitali a fini produttivi, da "passaggi" di denaro caldo (in valuta), diretto ad impieghi a breve e brevissimo termine e ad alti tassi e che determina, oltre tutto, forti e repentine oscillazioni nella bilancia estera "in conto capitale" dei paesi coinvolti. Ma precisavo che quest'ultimo è solo il caso più emblematico in cui la realtà concreta, che prevale in tutte le economie capitalistiche e miste, è oggi ben lontana dal garantire la tutela di diritti e l'osservanza di obblighi, quali quelli che sono stati individuati sopra, come importanti per il benessere delle persone, al di là di quanto le "leggi" dell'economia e le stesse "regole deontologiche" degli affari e delle professioni riescano a soddisfare.

In effetti, è il generale funzionamento dei mercati e delle istituzioni in campo finanziario e creditizio - nell'epoca della finanza globale, che sta portando alla sostanziale scomparsa della distinzione tra aspetti interni ed internazionali del problema - che è tale da comportare una valutazione negativa complessiva dal punto di vista delle premesse di valore morale dal quale ci si è posti in questa sede, vale a dire - lo ripeto ancora in sintesi - non dall'angolo visuale dei "criteri dell'etica della finanza", ma da quello dei "vincoli etici alla finanza". E' così che, in tema di implicazioni dei ragionamenti fatti e delle conclusione tratte, concludevo che occorre esplicitare dei veri e propri "vincoli" da cui scaturiscano "criteri" e "regole" di condotta da porre a base dei comportamenti concreti dei soggetti e del funzionamento concreto di mercati ed istituzioni, quindi a livello sia individuale che sociale, per finanzieri, agenti di borsa, banchieri, operatori degli intermediari finanziari di ogni tipo e dimensione, sul piano interno ed internazionale, ed anche sul fronte del "privato sociale", così come del resto per i prenditori dei fondi, quali imprese individuali e sociali, la pubblica amministrazione, le stesse "famiglie".

In termini di "interventi" e "strumenti" di legislazione e di politica economica che possono rispettivamente essere adottati ed utilizzati in merito, quanto all'Italia proponevo che - ove si mettesse mano anche ad una revisione della Parte Prima della nostra Costituzione - si può pensare ad un "riconoscimento" di ordine costituzionale dei principi, diritti e doveri come sopra individuati. Più realisticamente, mi rendo conto che si può, magari, spingere solo per ipotesi e soluzioni specifiche che prevedano sia norme che sanzioni tendenti a realizzare una struttura di istituzioni, mercati, incentivi, oneri, comportamenti che - andando al di là del rispetto dei "criteri" precisati in sede di parametri dall'etica degli affari e degli stessi "requisiti" di efficienza (ed efficacia) richiesti dai canoni dell'economia - contemplino comunque una certa regolamentazione intesa all'applicazione di quei "vincoli", "diritti" e "doveri" rivenienti dalle istanze di fondo della morale sociale e dell'etica tout court sopra richiamate e sottoscritte.

In particolare e senza ovviamente entrare in dettagli tecnici, anzitutto richiamavo la proposta tempo fa avanzata dall'economista (premio Nobel) Tobin e recentemente ripresa in termini più operativi dallo stesso e da altri studiosi 26, proposta tendente ad introdurre, nella legislazione e nella pratica di tutti i paesi, la cosiddetta "tassa di Tobin" ("Tobin tax"), vale a dire un'imposta che gravi su tutte le operazioni relative a movimenti internazionali di capitali a breve e brevissimo termine, da usare come deterrente delle attività finanziarie speculative che concernono gli spostamenti di fondi fra paesi e, di converso, per incoraggiare gli spostamenti internazionali di risparmio finanziario a medio-lungo termine.

Inoltre, una proposta simile - certamente da studiare ed approfondire adeguatamente sul piano tecnico - mi sentivo di fare con riferimento anche agli impieghi speculativi di fondi che hanno luogo all'interno del paese, nel senso di prevedere forme specifiche di tassazione degli impieghi stessi oppure la costituzione di un deposito infruttifero di una certa somma per un certo periodo e per un consistente ammontare (ad esempio, una certa percentuale dei fondi "mobilitati") da valere a titolo di "cauzione" contro il verificarsi di eccessiva volatilità dei titoli trattati, e quindi di eccessiva instabilità dei rispettivi mercati, e da versarsi a carico di tutti gli operatori coinvolti ed a beneficio del settore pubblico 27. Il punto mi sembra tuttora di specifico rilievo: mentre all'interno del mondo della "finanza" prevalgono le esigenze e le richieste di "efficienza", "trasparenza" ed anche "integrità" (intendendosi rispetto all'"infiltrazione" delle attività criminali) dei mercati, dal punto di vista dei più generali interessi della società non ci si può non fare carico anche degli aspetti di "stabilità" ed "equità" nel funzionamento dei mercati finanziari, di quelli sia internazionali che interni.

Infine, con riferimento all'intermediazione creditizia - e "in armonia" col dettato costituzionale già richiamato in nota (1° comma dell'art. 47) - consideravo che è poi il caso di prevedere veri e propri obblighi per gli operatori coinvolti, allo scopo di indurli a mettersi sulla strada di adottare criteri di valutazione, nell'erogazione del credito richiesto, basati - come tecnicamente si dice, ma è chiaro che qui non è proprio possibile dire più di tanto - sul "merito del credito"; cosicchè la "capacità di credito" venga accertata specificamente e sollecitamente in relazione ai progetti presentati, e non ipoteticamente rispetto alla pre-esistente disponibilità, o meno, di "garanzie" di vario tipo. Tra l'altro, è in questo modo che sarà possibile dare concreta attuazione a quei "diritti" in campo creditizio che, in precedenza, ho proposto di "formalizzare" in un certo modo e di cui, nella forma di "esigenze", tanto si è parlato e si parla nel nostro paese, specialmente per il Mezzogiorno e le sue necessità di uno sviluppo economico ed occupazionale accelerato e stabile 28.

 

8. Le più recenti turbolenze sui mercati finanziari internazionali: un'interpretazione e valutazione.

Tra l'estate del 1997 e l'autunno di quest'anno si è consumata - come noto - una crisi molto grave sui mercati finanziari e valutari internazionali, crisi che non si è ancora risolta; anzi si parla ora, sempre più, per la prima volta dagli anni '30, delle possibilità di una vera e propria recessione delle economie generalizzata a livello mondiale.

Guardando ad alcuni "fatti", colpisce anzitutto la gravità della crisi che ha colpito, sin dal luglio 1997, le grosse economie delle cosiddette "tigri asiatiche" (Corea del Sud, Thailandia, Malaysia, Indonesia), cioè quelle dei paesi di nuova e rapida industrializzazione. Esse, che tanta ammirazione avevano riscosso negli ultimi anni per il loro processo accelerato di sviluppo economico, sono in realtà venute ad esporsi troppo verso l'esterno con debiti a breve termine di natura bancaria, di provenienza varia, ma soprattutto europea (tanto la Germania e la Francia, meno la Gran Bretagna, molto poco l'Italia), mentre titoli di ogni genere ed altri assets riscuotevano la fiducia e l'impiego di ingenti somme da parte di risparmiatori occidentali, in particolare di "investitori" istituzionali. Simili, ma nient'affatto identici, problemi di squilibrio e scompenso finanziario sono venute mostrando, da un lato, l'economia giapponese, entrata in una crisi interna tutta propria sin dall'inizio degli anni '90, e dall'altro grosse economie cosiddette emergenti quali in particolare la Russia, il Brasile, il Messico, economie tutte vuoi con enormi problemi interni, vuoi fortemente "esposte" verso l'esterno, sia in termini di debiti per afflussi di capitali a breve di natura privata, specialmente bancaria, sia anche di indebitamento verso le Istituzioni finanziarie internazionali come in particolare il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Una caratteristica comune e cruciale era costituita dall'aumento continuo e consistente che i prezzi dei titoli, in particolare di quelli a breve e soprattutto dei titoli derivati, sono venuti sperimentando e mostrando negli ultimi anni. Tale aspetto ha caratterizzato, peraltro, gli stessi andamenti nelle Borse dei principali paesi capitalistici, in primis quella di New York ed essendo seconda a nessuna quella di Milano.

Chiaramente l'intreccio fra questi ed altri fenomeni di "squilibrio" o di "avvitamento" (ad esempio, in Giappone l'aumento "forsennato" dei prezzi degli immobili negli ultimi anni, aumento finanziato prevalentemente con prestiti bancari "autoalimentantisi") era tale e tanto che non si poteva non prevedere almeno, per dire, una "crisi di riassestamento", sia nei mercati di Borsa, che in quelli valutari, anche se non necessariamente di quelle proporzioni e con quella sintonia che si sono poi di fatto manifestate. Si pu˜ ben dire che la "raffica" di rimborsi in tutte le Borse, dove più, dove meno, dall'Asia all'Europa, da Wall Street all'America Latina - che è durata tutta l'estate 1998 e che sembra aver "raggiunto il fondo" nel settembre di quest'anno - è stata, in definitiva, sia una crisi assai acuta che una crisi annunciata; mentre praticamente nulla è stato fatto per limitarla o controllarla, nè - a mio giudizio - molto poteva ottenersi con interventi ad hoc, diciamo, di "sostegno" del corso dei titoli tramite, ad esempio, "adeguate" immissioni di liquidità da parte delle Autorità monetarie, problema quest'ultimo che riprenderò nelle osservazioni finali della relazione.

In effetti, ancora una volta, sia nelle "diagnosi" che nelle "terapie", non può non manifestarsi quello che a me sembra essere - ed ho cercato di dimostrarlo nelle pagine precedenti - un disaccordo fondamentale tra keynesiani (ancorchè di varia collocazione) e neoclassici (monetaristi, neoliberisti)29.

Il punto è che, per i secondi, si è trattato - e non pu˜ che trattarsi - di crisi "da bolle speculative", vale a dire da eccesso temporaneo nell'aumento dei prezzi degli assets di ogni genere e, conseguentemente, da salutare caduta dei corsi, al fine proprio di "riprendere il cammino" del fisiologico funzionamento dei mercati in ogni e qualsiasi comparto delle transazioni su titoli (inclusi i derivati e i derivati da derivati). Segue che, per i neoliberisti / monetaristi, occorre "assicurare" quella vigilanza e quell'accortezza nella conduzione, prioritariamente e pienamente, della politica monetaria, al fine di consentire il libero dispiegamento delle "forze di mercato" negli andamenti di tutte le grandezze macroeconomiche, reali e finanziarie.

Per i keynesiani, invece, si è stati in presenza di un'ulteriore e seria dimostrazione dell'intrinseca instabilità e dell'inaccettabilità di fondo nel funzionamento dei mercati finanziari dell'economia "globalizzata" e "selvaggia", allorchè provalgano - come si è venuto sempre più e sempre più velocemente verificando nella realtà capitalistica - gli impieghi speculativi dei fondi, soprattutto sul piano internazionale. Tali impieghi speculativi sono strutturalmente connaturati nel modo di essere dei mercati capitalistici, dell'ideologia liberista, dei valori di base stessi del capitalismo, del liberismo, dell'individualismo. Va da sè che, sul fronte keynesiano, si dimostrano essere necessarie e s'invocano politiche d'intervento, sia quelle di carattere macroeconomico generale (di domanda, ma anche di offerta), sia quelle specificamente finalizzate al controllo dei flussi finanziari internazionali, ma anche interni, politiche quest'ultime che riecheggiano quelle suggerite nelle pagine precedenti.

Nel contesto "frenetico" delle analisi fatte e delle proposte avanzate a vari livelli nei giorni "caldi" della crisi 30, sono emerse - tra un generale e, forse, ambiguo consenso - quelle relative alla riforma del sistema finanziario internazionale. Mentre non è questa la sede per entrare nel merito della complessa questione, non posso però, conclusivamente, non dire qualcosa sulla recentissima proposta, proveniente "ufficialmente" dai paesi del "G-7", concernente un piano anticrisi per riformare - com'è stato detto - l'"architettura finanziaria globale".

In sintesi, rifacendosi sostanzialmente alle posizioni "autorevolmente" sostenute sia dal Presidente statunitense Clinton che dal Premier britannico Blair, le proposte riguardano essenzialmente il potenziamento del ruolo e delle capacità d'intervento del FMI, tramite l'istituzione di un nuovo fondo da 90 miliardi di dollari (circa 150 miliardi di lire), dove attingere per il "salvataggio" dei paesi in difficoltà di bilancia dei pagamenti a seguito di "crisi" da deflusso di fondi a breve termine. E' stato anche proposto un nuovo fondo da creare all'interno della Banca Mondiale (BM) - di cui, peraltro, si discute da tempo la possibilità di "fusione" con lo stesso Fondo Monetario - col fine di intervenire nei casi di specifiche difficoltà dei paesi "emergenti".

Va da sè che, in un caso come nell'altro, gli aiuti - da finanziarsi con quote di contribuzione da parte dei paesi del "G-7" - saranno concessi solo a quei paesi in difficoltà che approvino "severi" piani finanziari di risanamento e ristrutturazione dell'economia. Infine - ed a me personalmente sembra essere questa una certa, ancorchè solo "necessaria", novità di rilievo 31, ma temo fortemente che non se ne faccia nulla - la proposta del "G-7" prevede che venga creato un "codice di condotta" per l'attività della finanza, rendendo più "trasparenti" le operazioni di intermediazione di fondi come, in particolare, gli "hedge funds" (cioè quei fondi che "contemporaneamente" e, quindi, "allo scoperto" acquistano e vendono a termine titoli, tipicamente titoli "derivati"), nonchè nuove regole per "monitorare" i flussi complessivi di fondi tra paesi cos" come, più in generale, per "coordinare" le politiche economiche e finanziarie all'interno dello stesso "G-7" (aspetto, quest'ultimo, su cui peraltro si riflette e si parla - ma solo si riflette e si parla - da tempo).

Comunque, siccome non è stato detto, nè in qualche modo si sa, quando e come le proposte avanzate saranno discusse, e meno che mai si può prevedere se e quando saranno approvate e diverranno operative, non può negarsi che un certo, e positivo, effetto-annuncio le proposte stesse hanno conseguito sugli andamenti delle principali Borse mondiali, nonchè sul "clima complessivo" in cui si svolgono i flussi finanziari internazionali. Mi preme, tuttavia, notare e sottolineare che l'unica politica macroeconomica (di carattere "congiunturale") che è stata largamente proposta negli ultimi tempi, ed anche concretamente attuata da molti paesi (tra cui il nostro) - quella della riduzione, anche forte, dei tassi d'interesse - a me personalmente non sembra una strada che sia veramente "efficace" da perseguire ed "accettabile" da percorrere.

Il fatto che si voglia con essa "sollevare" la Borsa e contestualmente "sostenere" l'economia reale, ed in particolare l'occupazione, a me sembra essere una prospettiva tutt'altro che convincente. In effetti - in condizioni nelle quali sono presenti e radicate consistenti posizioni di "aspettative pessimistiche", vale a dire relative ad una direzione recessiva dell'economia reale a livello mondiale complessvo e di singoli paesi - penso che ben poco possa fare l'abbattimento dei tassi d'interesse sol che si ragioni, come avrebbe fatto Keynes, in termini di "trappola della liquidità", di "inelasticità" rispetto all'interesse delle decisioni d'investimento e di consumo, di "carenza" o comunque "basso profilo" dei cosiddetti animal spirits imprenditoriali. Viceversa, lo "stimolo" alle Borse ce lo si può ben aspettare; ma, tutto sommato, si tratta - tenendo presenti tutte le argomentazioni svolte e le riserve avanzate nella relazione - di prospettiva non accettabile, in quanto si tratterebbe, più che altro e ancora una volta, di spingere avanti l'attività speculativa degli impieghi finanziari "a breve termine" e nient'affatto quella che stimola e sostiene gli investimenti reali, la produzione e l'occupazione.

Voglio solo menzionare qui l'ulteriore aspetto che, logicamente e analiticamente, si tratterebbe comunque di un "modello" insoddisfacente, nella misura in cui propone di "perseguire simultaneamente" due obiettivi, il funzionamento del mercato borsistico e il rafforzamento dell'economia reale, intendendo "manovrare" un solo strumento di politica economica, quello monetario. In definitiva - e concludo veramente - rispetto a prospettive del tipo contemplato la mia posizione (per quello che vale) è una posizione di dissenso e contrapposizione. Considero assai gratificante che questo incontro mi abbia offerto l'opportunità di una "piccola testimonianza" in tale direzione.

 

 

Note 

1 Relazione al 2¡ Seminario di Ricerca per Docenti delle Facoltà di Scienze Sociali delle Pont. Univ. Gregoriana e San Tommaso sul tema "Dall'etica del risparmio all'etica della finanza", svoltosi il 22 novembre 1997. La relazione, in versione rivista, è ora pubblicata come saggio IV/II in F. Marzano, Economia ed etica: due mondi a confronto. Saggi di economia ed etica dei sistemi sociali, Roma, ed. a.v.e., 1998.

2 In proposito, al fine di "semplificare" il discorso, sono propenso ad impiegare i termini etica e morale come sinonimi, anche se mi rendo conto che trattasi di "semplificazione" generalmente non accolta nella riflessione dei filosofi e teologi morali, mentre lo è tra gli economisti che, sempre più spesso, si stanno occupando dei problemi dei rapporti sia fra etica ed economia in generale, sia fra etica e finanza più in particolare.

3 In particolare, in J. Schumpeter (1949) e (1954), Vol.I, Introd.

4 Cfr. in particolare, nella citata raccolta (1998), i saggi I e III della Parte Prima.

5 Invero, sul piano della teoria monetaria e finanziaria, la contrapposizione fra i due gruppi è "di antica data" e la si può far risalire al dibattito che si affermò, agli inizi del periodo della "rivoluzione industriale" in Gran Bretagna, fra le cosiddette "scuola metallica" e "suola bancaria". Non essendo certamente possibile soffermarsi qui sull'interessante questione, non può comunque non essere sottolineato che la contrapposizione stessa ha contrassegnato tutta l'evoluzione della riflessione degli economisti, finchè - a seguito della "svolta" apportata nell'intera teoria economica dal grande Keynes con la sua Teoria Generale (1936) e con la "ripresa" della contrapposta impostazione neoclassica da parte dei monetaristi dalla metà dei nostri anni '50 - anche il dibattito in oggetto è diventato ormai esprimibile chiaramente, appunto, in termini di contrapposizione fra "keynesiani" e "monetaristi".

6 Trattasi, come noto, dei settori "istituzionali" studiati e rilevati dalla contabilità "sociale" o "nazionale". Sul piano definitorio-contabile, va ricordato, in particolare, che il settore privato sociale è terzo se considerato come settore produttivo e utilizzatore di risorse reali a fronte del "primo" settore (quello privato o del "mercato", che - nel contesto dei settori istituzionali - distingue tra le "famiglie" e le "imprese") e del "secondo" settore (quello pubblico o dello "Stato" cioè, in detto contesto, delle "amministrazioni pubbliche"), mentre è sesto appunto nel presente contesto che privilegia l'ottica dei "flussi di fondi" e che - come richiamer˜ fra poco - guarda ai rapporti finanziari fra settori in surplus e settori in deficit di un'economia.

7 Trattasi di aspetto assai rilevante che, "trascurato" nella Teoria Generale (1936), è stato affrontato e sistematizzato, per la prima volta, dallo stesso Keynes in noti contributi successivi quali (1937a) e (1937b).

8 Tra l'altro, trovano spazio in questo contesto i titoli di Stato, in Italia i "famosi" buoni del Tesoro (BOT, etc.), che sono appunto titoli obbligazionari attraverso i quali il settore pubblico, in presenza di spese che superano le entrate fiscali, s'indebita verso i privati, per poi "sdebitarsi" al momento e nella misura in cui le entrate supereranno le spese ed i titoli pubblici potranno così essere rimborsati (il che, però, sappiamo quanto sia invero difficile realizzare nel nostro paese!).

9 Si è già detto della "ripresa" dell'approccio monetarista nei nostri anni '50. Conviene ora sottolineare che tale approccio è in linea di continuità con l'intero filone della teoria economica neoclassica: per quanto qui interessa direttamente, i principali riferimenti sono, per la contrapposizione diretta a Keynes, a C. A. Pigou (1933) e (1941), mentre per i dibattiti più recenti e più noti, a M. Friedman (1956), (1968), (1969), (1991).

10 Oltre alla fondamentale Teoria Generale (1936) ed ai già ricordati contributi (1937a) e (1937b), occorre ricordare, di J. M. Keynes, almeno (1930) e (1940). Per le posizioni "precedenti" la rivoluzione keynesiana che, in vario modo, la anticipano quanto ai punti che in particolare interessano i temi qui trattati, mi limito a citare i seguenti basilari contributi: K. Wicksell (1898, trad. ingl. 1936); J. Schumpeter (1912, trad. ingl. 1934); F. H. Knight (1921). Quanto alle posizioni "seguenti" la rivoluzione keynesiana che, in qualsiasi modo, si richiamano ad essa, si tratta di un campo veramente smisurato di riflessioni, analisi, dibattiti ed approfondimenti; basti in questa sede il riferimento al recente volume collettaneo di saggi scritti dai più importanti economisti keynesiani di oggi e pubblicati a cura di G. Harcourt-P. Riach (1996).

11 A solo titolo esemplificativo della straordinaria moltiplicazione del fenomeno dei movimenti internazionali di fondi registratasi negli ultimi anni, si consideri che l'ammontare medio giornaliero degli scambi valutari mondiali, che vent'anni fa era di 15 miliardi di dollari USA, s'aggira oggi sui 1.300 dollari!

12 Cfr. , nella già richiamata raccolta di contributi di M. Friedman (1969), il saggio "In Defense of Destabilising Speculation".

13 In particolare, rispettivamente, nelle già citate e fondamentali opere: F.H. Knight (1921) e J.M. Keynes (1936).

14 La questione, assai vasta e complessa, può essere qui affrontata solo "per sommi capi". I riferimenti alla letteratura potrebbero essere tanti, ma mi limito a citare due recenti fonti specialistiche: un interessante volume di S. Strange (1986) ed i papers, che non so se siano stati mai pubblicati, presentati ad un "Colloquio" scientifico internazionale svoltosi a Thun, Svizzera (1995). Sul piano più "tecnico", il riferimento d'obbligo è al "manuale" a cura di R.A. Klein-J. Lederman (1994).

15 Sul tema generale un richiamo specifico va fatto soprattutto ai contributi in merito da parte dei teologi morali; cfr. - tra i molti puntuali - i lavori di G.B. Guzzetti (1992); G. Gatti (1995); M. Toso (1995). Sul fronte della riflessione cristiana non cattolica, forse il miglior contributo, ancorchè "datato", è quello dell'economista D.A. Hay (1989).

16 Si noti che l'economia dell'accumulazione, della crescita, dello sviluppo, pone alcuni problemi "delicati" allorchè, in particolare, ci si confronti sull'esistenza di un'unica via percorribile per lo sviluppo economico "moderno" in tutte le condizioni ed a tutte le latitudini e longitudini della terra o, invece, di più percorsi di sviluppo da perseguire alternativamente a seconda delle condizioni particolari cos" come delle attitudini specifiche nelle diverse circostanze considerate. La questione dei rapporti fra aspetti economici ed etici nello sviluppo, con particolare riguardo al caso dei paesi meno sviluppati, viene specificamente affrontata nei saggi contenuti nella Parte Terza del già citato volume (1998).

17 La riflessione in proposito è ormai amplissima e la letteratura specialistica cresce di giorno in giorno. Com'è noto, il punto centrale di un approccio del genere è di enucleare una serie di requisiti deontologici che il mondo degli "affari" e quello delle "professioni", devono sottoscrivere ed osservare al fine di adottare una condotta che, ancorchè "ottimizzante", sia rispettosa della pari dignità e dei diritti fondamentali di tutti i soggetti coinvolti. In proposito, non essendo il caso di fornire riferimenti specifici ad una letteratura specialistica ormai immensa, può essere utile citare il recente contributo di tipo giuridico, ma dotato di una vasta bibliografia di tipo generale, di F. Capriglione (1997). Sul piano più ampio delle relazioni fra etica, economia, società e istituzioni, si pone poi l'importante contributo di A. Fazio (1996).

18 Si noti che un'altra posizione sta oggi diffondendosi e parimenti non mi trova consensiente: trattasi di quella visione dei rapporti fra premesse morali e questioni sociali (di cui quelle economiche sono parte) che insiste sul ruolo delle premesse "di valore" in quanto espressione di un'impostazione genericamente "solidaristica", indirizzata - volta per volta - a perseguire obiettivi specifici. Ciò è indubbiamente rilevante come indicazione di un impegno privato, o anche pubblico, mirante a dare un certo contributo alla soluzione di certi problemi, ma non può essere riguardato come modo valido per "dare sbocco" ad istanze le quali vadano al di là degli specifici compiti perseguiti e, dunque, si caratterizzino per una visione complessiva dei problemi che sia in grado di fissare - una volta per tutte - i criteri generali di giudizio e di condotta.

19 Assai più interessante è invece la prospettiva che si apre allorchè s'instauri un confronto e si ricerchi un consenso fra posizioni etiche di ordine generale che siano condivise quanto ai "criteri" di giudizio ed ai "contenuti" delle soluzioni che si perseguono, benchè ci si differenzi quanto alla "natura" delle premesse di valore da cui si parte. Quest'ultimo è il caso che, da parte di alcuni studiosi, si sta (faticosamente) cercando di concretizzare quanto ai rapporti fra etica "religiosa" ed etica "laica" allorchè si condividano alcuni valori comuni che servano da premesse valide per valutazioni e scelte morali condivisibili. La questione - che è di grande momento, rappresentando un "nodo" il quale, prima o poi, dovrà essere affrontato e sciolto anche al fine di inquadrare meglio gli "sbocchi" possibili per le posizioni e le soluzioni che, su un terreno specifico, vengono prospettate nella relazione - non può tuttavia essere perseguita in questa sede: per una prima considerazione, cfr. il già citato saggio III della Prima Parte nel volume di saggi (1998).

20 Un riferimento recentissimo in proposito è al volume collettaneo, pubblicato in occasione del 23° Congresso eucaristico nazionale di Bologna, a cura di S. Zamagni (1997); in particolare, per il più specifico aspetto del ruolo delle "esigenze etiche" nella finanza oggi, cfr. il saggio di I. Musu ivi contenuto, pp. 81-117. Quanto ad un interessante e più determinato angolo visuale, cfr. poi I. Musu-S. Zamagni (1994).

21 Può essere il caso di richiamare, in proposito, non solo la nota parabola "dei talenti" in Matteo 25, 14-30, ma anche quella, forse meno nota ma non meno efficace, "delle mine" in Luca 19, 11-27.

22 Va sottolineato che quest'ultimo punto è stato posto, in particolare e con forza, al centro di tutti i più recenti pronunciamenti accolti nella dottrina sociale della Chiesa, da quelli del grande Giovanni XXIII (1961) e (1963) e del Concilio Vaticano II (1965), a quelli assai penetranti di Paolo VI (1964), (1967) e (1971) ed ai tanti e fondamentali di Giovanni Paolo II tra i quali, in particolare, (1981), (1988) e (1991).

23 In proposito, possiamo anche ricordare che, nella Costituzione italiana (art. 47, 1° comma), tale "diritto" ha trovato adeguato riconoscimento, così come vi si trova l'esplicita dichiarazione che "La Repubblica .... disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito". Al di là di "facili" lagnanze su come molte delle norme veramente innovative della nostra Costituzione repubblicana in materia socio-economica siano rimaste inevase, credo possa essere sempre colta l'occasione per sottolineare quanto valida sia da ritenersi l'impostazione seguita che, proprio in norme di questo ambito, si è giovata del contributo determinante, insieme a quello di altri, dei costituenti che si rifacevano ai fondamenti ed ai principi della dottrina sociale cattolica. Per un'interessante "ricognizione" - anche sul piano dei precedenti storici - del principio e del criterio della solidarietà così come degli scopi dello Stato sociale presenti nella Costituzione italiana, cfr. F.P. Casavola (1996), pp. 144-78.

24 Quanto alle posizioni in campo "laico", il riferimento "d'obbligo" è almeno ai famosi saggi di I. Berlin (1969); mentre, per l'impostazione "cristiana" secondo il punto di vista cattolico, è noto che le più precise espressioni in proposito siano quelli rinvenibili in quel fondamentale documento del Concilio Vaticano II che è la Costituzione pastorale Gaudium et Spes (1965), Parte I, Capp. I e II.

25 Anche a questo proposito si vedano i riferimenti nei puntuali pronunciamenti del Concilio, Op.Cit. (1965), n. 70.

26 A proposito di questo aspetto, si rimanda ancora alle importanti formulazioni contenute nel citato testo del Concilio (1965), nn. 85-86-87.

27 Cfr. in proposito J. Tobin (1978) e B. Eichengreen - J. Tobin - C. Wyplosz (1995). Più di recente, la proposta è stata criticata, in quanto ritenuta "scarsamente efficace", da P. Davidson (1996), ma difesa sul piano delle "possibilità concrete" di attuazione da G. Gandolfo (1996), nei rispettivi interventi al Convegno in memoria dell'economista ed amico Fausto Vicarelli, prematuramente scomparso, Convegno svoltosi a Roma nei giorni 21-22-23 novembre 1996 ed i cui Atti sono pubblicati a cura di G. Gandolfo - F. Marzano (1999).

28 Si noti, peraltro, che quanto proposto non riguarda il problema, comunque importantissimo, che per lungo tempo è stato vivacemente dibattuto in Italia e che finalmente ha ricevuto soluzione oggi, concernente l'adozione nel nostro paese di un "omogeneo" trattamento fiscale per tutti gli impieghi di ricchezza finanziaria e, dunque, per ogni e qualsiasi forma di reddito o rendita di natura finanziaria. La stessa tassazione dei capital gains sui titoli è cosa diversa, in quanto in tal caso trattasi sempre di imposta su redditi, mentre la mia idea è quella di prevedere una forma di imposizione sugli scambi dei titoli, con particolare riferimento a quelli "derivati" e "sintetici".

29 Mi sembra che possa essere riguardata come una certa ed interessante applicazione ante litteram dell'approccio qui proposto l'istituzione dei "fondi antiusura" previsti dalla recente legge n. 108 del 1996.

30 Per due recenti posizioni "contrapposte" sulle tematiche di fondo della "finanza", si possono vedere - sul fronte keynesiano - J. Kregel (1996) e - sul fronte neoclassico - D. Salvatore (1998). Assai interessante, sul fronte keynesiano, è il recentissimo lavoro di P.M. Garber (1998).

31 In due interessanti riflessioni apparse su un quotidiano (Il Sole-XXIV Ore, 30-9-98 e 1-10-98), riflessioni di notevole spessore, M. Sarcinelli - a conclusione di un'ampia analisi-rassegna dei principali aspetti del problema, condotta su posizioni largamente neoclassiche - valutava come segue le principali proposte d'intervento "sul tappeto": dicendo sostanzialmente "no" alla proposta, ripresa più di recente da J. Sachs, di introdurre controlli e imposte sulle passività in valuta nei paesi di residenza; concordando abbastanza con l'imposizione di più elevati coefficienti di liquidità per le esposizioni bancarie negli stessi paesi; essendo invece "tiepido" quanto all'istituzione di "vincoli" nei paesi creditori, in particolare per le banche prestatrici; diffidando del tutto di proposte "alla Soros" sulla costituzione di una International Credit Insurance Corporation che comportebbe, per l'autore, una spinta ulteriore alle già presenti condizioni di "azzardo morale"; concentrandosi infine e dando la sua adesione quanto alle proposte di rafforzamento dei compiti e soprattutto delle disponibilitˆ di risorse per interventi da parte del FMI.

32 In proposito, vanno specificamente richiamate le precisazioni fatte sopra (n. 6) in tema di "insufficienza" degli aspetti di etica deontologica della finanza e della necessità di "muoversi" sulla base di un'etica generale sociale nell'affrontare e valutare i problemi morali posti oggi dall'impetuoso sviluppo della "finanziarizzazione" dell'economia nel contesto globale.

 

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