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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

Introduzione

L'uomo moderno è ormai intriso da una cultura i cui valori dominanti sembrano essere solo il potere e il successo; l'individuo moderno è tenuto ad avere successo, più che a essere persona: si è provato a sostituire i rapporti relazionali affettivi con le figure significative (familiari, amici) con rapporti di tipo formale (professionali - strumentali), l’artigianato e l'amore per il proprio lavoro con l'efficienza e l'efficacia di un lavoro sempre più veloce, sofisticato e cangiante, che stringe a tempi sempre più stretti. Tutto ciò al fine di essere sempre più competitivi. Oggi sembra diffondersi un sentimento depressivo che si può definire come "paura di vivere". La paura di vivere è legata all'autostima, alla fiducia di base. Oggi viviamo in una società che isola, certo non c'isoliamo se decidiamo di non farlo, ma per poter scegliere è necessario avere una personalità matura. Non sempre, però, la vita riserva un terreno fertile per la formazione di una personalità adulta. Spesso non esiste dialogo in famiglia o non esiste empatia fra i suoi membri. Molti genitori per ambire a un miglioramento delle condizioni di vita per i loro figli propongono loro un mondo facile, scevro da difficoltà e problemi. Provano a mascherare la realtà con i suoi innumerevoli problemi quotidiani con un mondo virtuale intriso di illusioni e false speranze. Come già sostenuto da molti, ad es. Nucci (2001), dall’educazione morale tradizionale basata sull’idea che l’acquisizione della moralità implichi un’accettazione degli standard e delle norme sociali si è passati, via via, ad un’idea che potremmo definire più aristotelica, dove l’uomo non è più considerato un automa governato dalle passioni o dalla cieca adesione alle norme sociali, bensì una persona che può far guidare i propri comportamenti dalla ragione e, quindi, dalla capacità di giudicare ciò che è bene e ciò che è male. La rapida tecnicizzazione ha cambiato profondamente la nostra vita e la nostra convivenza. Lo stesso sviluppo tecnologico comporta che, in molti campi, non siano più i giovani ad imparare dagli anziani, ma viceversa. In tal modo cadono in discredito i modelli di comportamento, anche morale, che questi ultimi vorrebbero trasmettere alle nuove generazioni. L'imponente sviluppo della tecnica ha portato a far sì che, nella valutazione dei più, la ragione strumentale (il pensare secondo le categorie della fattibilità) abbia preso il sopravvento sulla ragione pratica (il pensiero etico). Ulteriori motivi della decadenza dei valori tradizionali sono lo spirito concorrenziale e la seduzione della mentalità consumistica. Nel primo caso ciò comporta una diminuzione della capacità di immedesimarsi negli altri; nel secondo caso l'individuo si lascia guidare dall'esterno, abdicando sempre più alla coscienza personale, per cui è insicuro circa l'atteggiamento da assumere e dipende dal riconoscimento degli altri. La metamorfosi dei valori oggi in atto significherebbe che in primo piano non stanno più miglioramenti tecnici. I valori post-materiali non migliorerebbero le nostre condizioni materiali di vita, ma le nostre relazioni con il prossimo e la qualità soggettiva della nostra vita.

Harlow studiò gli effetti della deprivazione di affetto: come crescerà un bebè che non ha visto soddisfatto il suo bisogno di amore? Per rispondere a questa domanda i bebè scimmia vennero privati di qualsiasi contatto con altri simili durante i primi mesi di vita. Le scimmie, private della possibilità di soddisfare il bisogno d'amore, ma non certo di cibo, ricevuto anzi in abbondanza, dopo qualche mese si comportavano come i pazienti di un Ospedale Psichiatrico o come criminali aggressivi e violenti; non furono successivamente in grado di comunicare affetto sotto nessuna forma: le femmine non erano in grado di avere rapporti sessuali neanche se avvicinate da un maschio adulto particolarmente esperto e, se costrette alla procreazione, non sviluppavano alcun istinto materno. Una di esse, ad es., portò alla bocca la testa del suo piccolo (appena nato) e la sgranocchiò come fosse una patatina fritta; altre schiacciavano la faccia del bebè contro il pavimento; le uniche eccezioni si verificarono quando qualche piccolo, particolarmente capace di insistere nel richiedere affetto, continuò a richiedere le loro cure anche dopo ripetute frustrazioni: allora e solo in qualche caso la scimmia madre cominciò a rispondere all'affetto richiesto. La rieducazione di queste scimmie si è rivelata estremamente lunga e complessa ed è riuscita solo molti anni dopo i primi esperimenti grazie al tenace lavoro di Melinda Novak, una collaboratrice di Harlow: non è stato sufficiente infatti esporle a modelli adulti adeguati, segno che il solo reinserimento nel gruppo di scimmie sane non riporta automaticamente queste scimmie alla normale capacità di dare e ricevere affetto. Per recuperarle è occorso un lungo lavoro di psicoterapia, effettuato tramite il contatto continuo, durato anni, con un terapeuta scimmia che rispondeva a particolari caratteristiche: permetteva la regressione (doveva avere un terzo dell'età della scimmia - paziente) ed era particolarmente accettante, tanto da permettere il fenomeno conosciuto come "transfert".

Per essere felici, quindi, non basta soddisfare i bisogni materiali, che costituiscono solo il prerequisito minimo per evitare la sofferenza ed uscire dallo stato di deprivazione; l'uomo ha soprattutto bisogno di amare e di sentirsi amato, di socializzare e di stimarsi, di giudicarsi cioè positivamente rispetto alle proprie aspettative. Ne consegue che non può bastare che la società si preoccupi di soddisfare i bisogni materiali dei cittadini: dovrà provvedere anche a quelli psicologici. Viceversa ci troveremmo in una società di infelici: tali sarebbero infatti quegli individui che, preoccupandosi solo dei bisogni materiali, dovessero occupare per il loro soddisfacimento una tale quantità di tempo ed energie, da non avere possibilità di soddisfare le necessità psicologiche: ad es. lavorare dall'alba al tramonto in un setting lavorativo che non favorisce le relazioni sociali, non soddisfa il bisogno di autostima e non consente di aver tempo per le relazioni affettive, produce sì un individuo non deprivato materialmente, ma solo e insoddisfatto di se stesso, quindi infelice.

Come sostenuto da A. Lowen nell'introduzione al suo testo "Paura di vivere" (1982):
"... il nevrotico ha paura di aprire il proprio cuore all'amore, paura di scoprirsi o di farsi valere, paura di essere pienamente se stesso. Possiamo spiegare queste paure da un punto di vista psicologico: aprendo il proprio cuore all'amore, si diventa vulnerabili alle ferite; scoprendosi, ci si espone al rifiuto; facendosi valere, si rischia di essere distrutti. … Poiché abbiamo paura della vita, cerchiamo di controllarla o di dominarla. Crediamo che essere trasportati dalle emozioni sia nocivo o pericoloso. ... Questo può farci sentire dolore, ma se abbiamo il coraggio di accettarlo, proveremo anche piacere. Se sappiamo far fronte al nostro vuoto interiore, riusciremo a realizzarci. Se siamo in grado di andare in fondo alla nostra disperazione, scopriremo la gioia. E in questa impresa terapeutica abbiamo bisogno di aiuto. L'individuo nevrotico è in conflitto con se stesso. … Il suo Io tenta di sottomettere il corpo; il suo pensiero razionale, di controllare le emozioni; la sua volontà, di superare paure e angosce. Sebbene questo conflitto sia per lo più inconscio, il suo effetto è di esaurire le energie di una persona e di distruggere la pace della mente. Il carattere nevrotico assume forme diverse, ma tutte implicano una lotta all'interno dell'individuo tra quello che è e quello che crede di essere. … I genitori, come rappresentanti della cultura, hanno la responsabilità di infondere i propri valori ai figli. Esigono da loro atteggiamenti e comportamenti destinati a inserirli nel contesto sociale e culturale di appartenenza. Da una parte il bambino oppone resistenza a queste richieste perché equivalgono a un addomesticamento della sua natura animale ma per diventare parte del sistema, deve essere domato. D'altra parte il bambino desidera conformarsi a queste esigenze per ottenere l'amore e l'approvazione dei genitori. Il risultato dipende dalla natura delle richieste e dal modo in cui sono imposte. Con l'amore e la comprensione è possibile insegnare al bambino le abitudini e le regole di una cultura senza soggiogare il suo spirito. Ma, purtroppo, nella maggior parte dei casi, il processo di adattamento del bambino alla cultura indebolisce la sua personalità, e ciò lo rende nevrotico e timoroso della vita."

A ciò si può aggiungere l'affermazione di Pavlov che: "... una persona è realmente sana se persegue uno o più obiettivi a lungo termine" (in Cuny, 1964); infatti "Solo chi per tutta la vita persegue uno scopo accessibile... ha una vita bella e intensa. Ogni progresso, ogni conquista, sono funzioni di questo riflesso di scopo. La vita cessa di essere attraente dal momento che manca di scopo. I suicidi mettono fine ai loro giorni perché non trovano più alcun senso nella vita; la loro tragedia consiste nel non poter superare una fase di momentanea inversione del riflesso di scopo".

Sostiene Adler (1975, pag. 4) che: "Il fatto fondamentale nello sviluppo umano è costituito dalla tendenza dinamica e finalistica della psiche. Un fanciullo fin dalla sua prima infanzia è impegnato in una continua lotta per affermarsi e questa lotta tende a un fine che è vissuto inconsciamente, ma che è sempre presente in lui e che corrisponde ad una visione di grandezza, perfezione e superiorità. Questa lotta, questa attività formativa di mete, rispecchia naturalmente la particolare maniera di pensare e di immaginare dell'uomo e domina tutte le nostre specifiche azioni nel corso della vita. Essa domina anche i nostri pensieri perché noi non pensiamo obiettivamente, ma in funzione del fine e dello stile di vita che ci siamo costruiti".
Frankl parla invece di "significato della vita". Il nucleo concettuale della proposta di Frankl indubbiamente sta proprio nella ripresa e nello sviluppo della "volontà di significato", poiché "il preoccuparsi del significato della propria esistenza caratterizza l'uomo in quanto tale" (Frankl, 1974). Frankl propone di lavorare sul significato da dare alla propria vita, come momento preminente durante una psicoterapia.

Ci ricorda Bauman che dinanzi alle sfide della globalizzazione, del relativismo culturale, dell'individualismo, in un certo senso paradossalmente, aumenta l'interesse verso alcuni principi fondamentali elaborati del pensiero sociale, specie quello di derivazione cattolica, come la destinazione universale dei beni, il bene comune e la solidarietà. Negli anni ottanta, con la fine delle grandi ideologie e l'emergere della cosiddetta "network society," post-moderna e globalizzata, la società tradizionale ancorata a ben definiti valori si è trovata improvvisamente impreparata al cambiamento globale caratterizzato da una sempre maggior interdipendenza tra i diversi piani della realtà socio-economico e politica in differenti contesti del mondo. Ciò ha generato la "società liquida" (Bauman, 2002) dove le situazioni in cui gli uomini agiscono, si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Nel contesto odierno globalizzato e post-moderno, la trasmissione dei contenuti risulta possibile in tanto quanto si pongano in essere idonei processi comunicativi in una prospettiva interazionista, mediata a livello simbolico, che coglie come il giovane costruisce intersoggettivamente la propria identità, ruolo sociale e analisi della realtà sociale sul palcoscenico della vita quotidiana (Archer, 1997). L'effetto del processo di individualizzazione che ne deriva si può anche descrivere come la crisi dell'idea di cittadino che ricerca il proprio benessere, la propria realizzazione attraverso l'impegno nel conseguimento del benessere della città e della collettività. Infatti, la tendenza odierna, porta l’individuo ad una certa indifferenza verso principi fondamentali quali il bene comune, la solidarietà, la partecipazione e a massimizzare la propria libertà di agire, secondo i propri desideri o interessi, anche a scapito dell'altrui dignità umana e dei diritti fondamentali. Sono quindi venuti a mancare i tradizionali modelli di dipendenza e interazione, stabili riferimenti entro cui muoversi. Con il processo di secolarizzazione, si è infatti assistito alla caduta dei modelli di riferimento tradizionali ed il conseguente imporsi di modalità di interfaccia con l’ambiente a seconda della circostanza. Con la progressiva destrutturazione dei valori culturali condivisi e in un contesto caratterizzato dall’incertezza e dal rischio, si deve rilevare altresì, l'inevitabile depotenziamento della metodologia educativa classica basata sul modello educativo integrazionista e conflittualista, come ben descritto da Bauman: "Il coordinamento (forse persino l’armonia preordinata) tra lo sforzo di “razionalizzare” il mondo e lo sforzo di educare esseri razionali adatti ad abitarvi, ossia l’assunto di fondo del progetto educativo moderno, non pare più credibile" (2002, pagg. 175-176).

In questo contesto diviene centrale il dibattito sulle condizioni dell’educazione e della trasmissione valoriale alle giovani generazioni in particolare in rapporto alle metodologie di comunicazione. Tale dibattito molto spesso appare contrassegnato da un atteggiamento di ripiegamento rinunciatario dovuto, da un lato, dalla presa di coscienza del fallimento dell'azione educativa tradizionalmente intesa e dall’altro dalla sfiducia nutrita verso il mondo giovanile percepito come inesorabilmente in declino morale. Purtroppo molti genitori non sono in grado di proporre modelli realistici e non sempre trovano aiuto negli altri educatori (gli insegnanti del resto non possono sostituirsi alla famiglia), nei consiglieri spirituali (sempre meno richiesti e spesso senza alcuna preparazione psicopedagogica) e tanto meno nei mass media (che sembrano non far altro che proporre idoli, eroi falsi costruiti su misura per attrarre: falsamente perfetti ed ancora più falsamente felici). Troppo spesso accade di incontrare adulti non cresciuti che, non possedendo un modello reale (risultato di una corretta conoscenza di sé e della realtà circostante = scala valori reale), persistono nel confrontare il proprio e 1'altrui comportamento con un'immagine ideale (proveniente non dalla conoscenza dell'esistente, ma di ciò che "dovrebbe essere"), col risultato di vivere costantemente in uno stato di insoddisfazione e col rischio di giungere al rifiuto di qualsiasi modello, nel vano tentativo di superare tale insoddisfazione. La diretta conseguenza che ne scaturisce è vivere solo sulla spinta dei propri desideri, perdendo il senso della vita e dell'esistenza. Ne conseguiranno due forme di patologia: quella di chi rifiuta di confrontare il proprio comportamento con un modello e vive schiavo degli avvenimenti, ed i cui umori e percezioni seguiranno le alterne fortune della vita; chi invece continua testardamente a non voler crescere, a non superare lo stato adolescenziale, e confronta il proprio e l'altrui comportamento con un modello ideale (irraggiungibile, in quanto tale), col conseguente rifiuto di se stesso e dell'altro. La persona psichicamente sana non sarà quindi quella libera da modelli di comportamento e che vive del soddisfacimento dei propri desideri, ne' quella che rifiuta continuamente se stessa o l'altro perché inadeguati nei confronti del modello ideale; sarà invece quella che riconosce ed accetta la propria e l'altrui limitatezza e nello stesso tempo continua ad amare se stessa e gli altri.

Quando ci si vuole impegnare nell'educazione non si può prescindere dal fatto che i valori, in modo più o meno conscio, orientano le azioni e costituiscono gli elementi base per la costruzione dell’identità. Essi sono il mezzo con cui le persone giudicano sé stesse, gli altri e il sistema dove sono inserite e quindi rappresentano un fattore essenziale per comprendere e leggere le rappresentazioni, le percezioni che gli attori sociali costruiscono attorno al sistema sociale. A fronte di un progresso talora indiscriminato e alla produzione su scala universale, da più parti si condivide la necessità di una regolamentazione gerarchizzata dei valori in campo che parta dalla difesa della dignità umana e dei diritti umani. La nuova attenzione alla vera natura umana, insieme alla necessità di una solidarietà universale tra tutti gli uomini, può divenire quel terreno comune capace di guidare la globalizzazione. A questo punto diviene centrale il problema della trasmissione dei contenuti valoriali attraverso l'attivazione di un processo partecipato e dinamico che parta da quello che possiamo scorgere nel mondo della vita dei giovani e dalla necessità di trovare processi comunicativi adatti. Considerando infatti, il significato di comunicazione, come abilità emotiva, che consiste nel creare negli altri un’esperienza tale da coinvolgerli fin nelle viscere, si deve rilevare l'insufficienza del modello trasmissivo comunicativo tradizionale di tipo gerarchico-burocratico che si risolve in una mera trasmissione di informazioni e nozioni, per quanto con modalità creative e coinvolgenti (Goleman, 1996). L’apprendimento cosiddetto scolastico-tradizionale, luogo di trasmissione di un patrimonio conoscitivo consolidato alle nuove generazioni su mandato della società, è oggi soppiantato in larga parte da un approccio cognitivo di stampo costruttivista dove il soggetto che apprende è il reale protagonista di un processo di costruzione della propria conoscenza attraverso un'attività cognitiva, contestualizzata e integrata all’interno di attività che si svolgono nel mondo sociale. La corretta impostazione parte dal presupposto che le radici comunicative dell'attività formativa devono essere rilette all'interno di un modello interazionista comunicativo simbolico che si caratterizza per la creazione e l’interpretazione di significati rispetto alla realtà attraverso il rapporto intersoggettivo e l'interazione reciproca degli attori sociali. Fondamentale appare la centralità del soggetto e la sua capacità di comunicare; soggetto caratterizzato da un'identità narrativa in grado di reinterpretare e risignificare la realtà, tradizionalmente data per scontata, cognitivamente, relazionalmente e riflessivamente. Per comunicare non è neppure sufficiente l'abilità tecnica degli strumenti mass-mediatici. S'impone la necessità di un profondo cambiamento culturale e di prospettiva. Il panorama scientifico ha preso atto della rivoluzione avvenuta nel mondo giovanile con l'avvento della globalizzazione e della società post-moderna, nel modo di concepire e costruire la propria vita che ha portato a superare il modello tradizionale lineare a fasi consecutive (formazione, lavoro, pensionamento) con uno scenario caratterizzato dalla discontinuità delle carriere di vita e con un intreccio di esperienze formative e lavorative. Il passaggio da una fase della vita ad un'altra è diventato, per le generazioni giovani caratterizzate da un'identità fluida (Bauman, 2001, pag. 153), via via meno netto e più sfumato. Per i giovani si è verificato un continuo differimento delle scelte di vita personali, in particolare di quelle che identificano la transizione dalla giovinezza all’età adulta, dovuto anche al prolungamento del percorso scolastico medio, all'invecchiamento della popolazione e alle difficoltà di entrata e stabilizzazione nel mercato del lavoro. Oggi l'universo giovanile è descritto generalmente in una permanente crisi d'identità. Il fatto che i giovani siano i soggetti più coinvolti in questo repentino e radicale mutamento sociale è oggi un dato di fatto; così che le giovani generazioni, complice anche la prolungata crisi economica e occupazionale globale, risultano le più danneggiate dall'attuale negativa congiuntura economica. I dati statistici confermano che le giovani generazioni, già detentrici di minor risorse e posizioni rispetto agli altri attori sociali, per la prima volta non riusciranno a mantenere il tenore di vita raggiunto dai propri genitori.

Parlare di giovani oggi appare questione tutt'altro che semplice e scontata se si considera come nelle società preindustriali non vi fosse un tempo per esserlo e il passaggio all'età adulta avvenisse con il raggiungimento di una determinata età biologica convenzionale. Il concetto di stampo giuridico di "giovane adulto" (18-25 anni) risulta essere anch'esso difficile da definire. Utilizzare una semplice definizione biologica del resto non risulterebbe corretto poiché il percorso di maturazione della sfera psicologica e culturale della persona non è necessariamente direttamente connesso all’età anagrafica. La letteratura in materia è concorde nel considerare la giovinezza come una rappresentazione sociale, dai confini e dai caratteri indefiniti, fluida, sempre relativa e non estrapolabile dal contesto storico e sociale in cui viene essa stessa definita. Essa è ben descritta da Levi e Schmitt: "Si colloca all’interno dei margini mobili tra la dipendenza infantile e l’autonomia dell’età adulta, in quel periodo di puro cambiamento e di inquietudine in cui si realizzano le promesse dell’adolescenza, tra l’immaturità sessuale e la maturità, tra la mancanza e l’acquisizione di autorità e di potere. In questo senso, nessun limite fisiologico è sufficiente a identificare analiticamente una fase della vita riconducibile piuttosto alla determinazione culturale delle società umane, al modo in cui esse cercano di identificare, di dare ordine e senso a qualcosa che appare tipicamente transitorio, vale a dire caotico e disordinato" (1994, 6). L’età giovanile, del resto, è generalmente considerata una fase transitoria che segna progressivamente l'addio dell’adolescenza e la contestuale assunzione delle funzioni e delle caratteristiche del mondo adulto. In Italia le prime indagini facevano rientrare nella categoria dei giovani coloro che avevano un’età compresa tra i 15 e i 24 anni; delimitazione che è andata successivamente e progressivamente ampliandosi fino ad arrivare ai nostri giorni addirittura sino ai 34 anni. Se nella prima parte del Ventesimo secolo, la giovinezza individuava una breve fase della vita, nella seconda metà la situazione si modifica sensibilmente fino a essere considerata come destinata ad un’infinita estensione. In sostanza, i passaggi più significativi, dopo la comparsa della gioventù negli anni cinquanta, sono caratterizzati dalla caduta della continuità e conformità tipica di quegli anni e dalla successiva ribellione, molte volte collettiva, e il conseguente scontro diretto fra generazioni. Tale contrapposizione è andata via via scomparendo lasciando il campo a un crescente rapporto di empatia del mondo giovanile con la realtà adulta. Il cosiddetto scarto generazionale, molto evidente negli anni sessanta-settanta, si stempera così a partire dagli anni ottanta, riavvicinando progressivamente le generazioni sotto il profilo degli stili di vita e di consumo, in una sorta di colonizzazione reciproca, dove si evidenzia la tendenza al giovanilismo (quando un adulto si maschera da giovane) negli adulti e per contro all'adultismo (quando un giovane si maschera da adulto) nei giovani, soprattutto per quanto riguarda l’anticipazione di comportamenti adulti e la richiesta di autonomia nelle scelte e nella libertà di movimento. Il ritardo e la reversibilità del superamento del passaggio tra la giovane età e la vita adulta hanno influito fortemente nel rendere la linea di demarcazione sempre meno identificabile, con l'insorgenza di un processo di confusione tra la condizione giovanile e la condizione adulta.  Sino al punto che diventa sempre più difficile distinguere la maschera (intesa come un mediatore tra l’Io e il mondo esterno) che l'individuo indossa dalla realtà che ad essa sottende. Quindi maschera come necessità per adattarsi alla Società, per essere riconosciuto nel proprio ruolo ed essere accettato come persona; siamo chiaramente in una logica pirandelliana. Il panorama scientifico ha preso atto della rivoluzione avvenuta nel mondo giovanile con l'avvento della globalizzazione e della società post-moderna, che hanno portato un radicale cambiamento nel modo di concepire e costruire la propria vita, ciò ha portato al superamento del modello tradizionale di tipo lineare a fasi consecutive (formazione, lavoro, pensionamento) con uno scenario caratterizzato dalla discontinuità delle carriere di vita e con un intreccio variegato di esperienze formative e lavorative. I giovani non desiderano essere ingabbiati dentro i binari di una transizione lineare secondo i confini della generazione precedente, in quanto molte delle promesse che l’accompagnano si sono rivelate poco realizzabili e carenti di sicurezze. Il passaggio da una fase della vita ad un'altra è diventato, per le generazioni giovani, caratterizzate da un'identità fluida (Bauman 2001), via via meno netto e più sfumato. Si tratta di una fluidità esperienziale, data dalle continue transizioni tra diverse attività e ruoli sociali, nella ricerca che ogni giovane compie per trovare il proprio posto nel mondo.

Il fatto che i giovani siano i soggetti più coinvolti in questo repentino e radicale mutamento sociale è oggi un dato di fatto, confermato anche da autorevoli ricerche internazionali, dove le giovani generazioni, complice anche la prolungata crisi economica e occupazionale globale, certamente risultano le più danneggiate dall'attuale negativa congiuntura economica. Dai dati statistici emerge che quest'ultime, già detentrici di minor risorse e posizioni rispetto agli altri attori sociali, per la prima volta non riusciranno a mantenere il tenore di vita raggiunto dai genitori. In generale, ciò che forse riguarda maggiormente i giovani e le loro interazioni con le generazioni adulte, è il passaggio da un sistema sociale strutturato e prestabilito, caratterizzato da determinate attese sociali e familiari, ad un sistema in cui nulla viene considerato scontato, con un conseguente aumento esponenziale delle possibilità di scelta per l’individuo. Con il processo di secolarizzazione, si è infatti assistito alla caduta dei modelli di riferimento tradizionali ed il conseguente imporsi di modalità di interfaccia con l’ambiente a seconda della circostanza. Si è passati quindi da una struttura familiare verticale ad un modello orizzontale caratterizzato dalla trasformazione del ruolo della donna, dal progressivo contenimento dei tassi di natalità, della compresenza di più generazioni e dall’irresistibile ascesa della socialità ristretta (famiglia mononucleare). Per i giovani si è verificato un continuo differimento delle scelte di vita personali, in particolare di quelle che identificano la transizione dalla giovinezza all'età adulta, dovuto anche al prolungamento del percorso scolastico medio, all'invecchiamento della popolazione e alle difficoltà di entrata e stabilizzazione nel mercato del lavoro.

In questo contesto diviene centrale il dibattito sulle condizioni dell’educazione e della trasmissione valoriale alle giovani generazioni in particolare in rapporto alle metodologie di comunicazione. Tale dibattito molto spesso appare contrassegnato da un atteggiamento di ripiegamento rinunciatario dovuto, da un lato, dalla presa di coscienza del fallimento dell'azione educativa tradizionalmente intesa e dall’altro dalla sfiducia nutrita verso il mondo giovanile percepito come inesorabilmente in declino morale. Ciò da cui invece non si può prescindere è il fatto che i valori, in modo più o meno conscio, orientano le azioni e costituiscono gli elementi base per la costruzione dell’identità. Essi sono il mezzo con cui le persone giudicano sé stesse, gli altri e il sistema dove sono inserite e quindi rappresentano un fattore essenziale per comprendere e leggere le rappresentazioni, le percezioni che gli attori sociali costruiscono attorno al sistema sociale.

A ciò bisogna integrare il fondamentale aspetto della “riconciliazione tra le generazioni” che emerge da indagini empiriche attraverso le domande rivolte dai giovani ai loro adulti di riferimento a cui, anche se prendendo le distanze dalle modalità educative tradizionali, chiedono l’instaurazione di un rapporto di dialogo finalizzato a:
    •    essere educati assumendosi rischi e responsabilità attraverso sfide reali con degli adulti di riferimento;
    •    essere accompagnati nelle scelte con pazienza e ascolto, senza giudizi di valore già prefabbricati;
    •    capire le regole e vederle rispettate nella pratica;
    •    essere affascinati da testimoni che attestino la possibilità di condurre vite autentiche.

Quattro punti che possono essere considerati quasi un codice di regole su come bisognerebbe comportarsi quando si vuole diventare un valido formatore dei giovani. Specie laddove si ci vuole impegnare nella trasmissione di contenuti valoriali di stampo opposto a quelli già presenti (criminali) nel gruppo di giovani con i quali si vuole lavorare; ciò risulta possibile in tanto quanto si pongano in essere idonei processi comunicativi in una prospettiva interazionista, mediata a livello simbolico, che coglie come il giovane costruisce intersoggettivamente la propria identità, ruolo sociale e analisi della realtà sociale sul palcoscenico della vita quotidiana. Questo risulterà realizzabile nella misura del verificarsi di una nuova disponibilità all’ascolto, all'accompagnamento e alla comunicazione da parte degli educatori (in particolare i conduttori dei gruppi) risultato di una ricerca di strategie comunicative efficaci che dovranno tener conto che gli attori sociali interpretano il mondo come macro-sistema attraverso i riferimenti culturali e linguistici del proprio micro-sistema (il proprio ambiente) esistendo uno stretto rapporto fra cultura di un determinato contesto e percezione/capacità espressiva.


La Riforma del Sistema Giustizia

La legge n. 67 del 28 aprile 2014, costituisce il primo importante tassello di una riforma di tutto il sistema della giustizia, che punta all’individuazione di una giusta proporzione della sanzione penale in relazione al bene violato, alla gravità del comportamento e alla pericolosità sociale del soggetto. La prima parte della legge delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi per la riforma del sistema delle pene detentive non carcerarie attuando il principio secondo il quale: "la detenzione in carcere deve essere considerata come una extrema ratio", limitata ai delitti gravi e alla quale ricorrere quando altre sanzioni risultino inefficaci, garantendo, comunque le esigenze di sicurezza sociale. Ciò che è sotteso a questo principio è la sostanziale fiducia (basata sulle ricerche della psicologia moderna, in particolare quella di orientamento cognitivo comportamentale (in particolare Skinneriana) e gli studi di Harlow e Bowlby che: il comportamento dell'individuo è il risultato dei condizionamenti sociali (le sue esperienze di vita) e non della sua natura criminale: il suo carattere innato (come sostenuto da certa psichiatria di un non lontano passato). Ne consegue che l'individuo che ha commesso crimini non va rinchiuso o terminato (giustiziato tramite ghigliottina o camera a gas) come fosse un'animale feroce e pericoloso per gli altri esseri umani. Ma, coscienti che qualsiasi essere umano, se messo in determinate condizioni, potrebbe comportarsi come un criminale incallito; va, viceversa: rieducato. Con la conseguenza, quindi, di consolidarsi in una forma di intervento che tende ad avvicinarsi a quei sistemi penali, specialmente anglosassoni, nei quali la pena si modula ogni volta: sulle reali e concrete esigenze rieducative del soggetto, senza mai perdere di vista le valenze retributive e preventive che la pena deve sempre e comunque mantenere.

Accanto all’esigenza di trovare soluzioni deflattive per gli istituti penitenziari, vi è anche quella sollecitata dai documenti provenienti dall’Unione europea di individuare istituti alternativi al processo penale, idonei a dare una diversa risposta a determinate categorie di reati. A tale esigenza risponde la seconda parte della legge, che introduce nel nostro ordinamento la sospensione del procedimento con messa alla prova, una forma di probation giudiziale che, lungi dall’essere un istituto clemenziale, permette ai giudici di concentrarsi sui delitti che creano maggiore allarme sociale. Un’esigenza deflattiva per gli uffici giudiziari, in questo caso. Esigenza molto sentita, visto l’elevato numero dei procedimenti penali (basti pensare che quelli con autore noto, avviati in tribunale negli ultimi tempi, hanno superato il milione all’anno) e al senso di incertezza e sfiducia collettiva che ne deriva.

L’istituto della messa alla prova nell’ambito del processo penale degli adulti, pur costituendo l’estensione di uno strumento già da diversi anni sperimentato nel rito penale minorile, mira ad adeguarsi alle esigenze tipiche del processo penale, in modo da coniugare le finalità risocializzanti con quelle preventive. Esso realizza una rinuncia alla potestà punitiva dello Stato, condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita e trova applicazione per i reati punibili con la reclusione fino a 4 anni (non si applica ai delinquenti e contravventori abituali, professionali o per tendenza). Inoltre, a differenza del probation minorile, nel caso degli adulti l’istituto deve essere richiesto dall’interessato, il quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, entro i termini perentori espressamente indicati dalla norma, dovrà rivolgersi all'Ufficio di esecuzione penale esterna territorialmente competente per la definizione di un programma di trattamento, da allegare all'istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova. L'Ufficio, quindi, trasmette il programma di trattamento che dovrà garantire l’organicità dei contenuti, la chiarezza degli impegni e la congruità degli obiettivi, unitamente all'indagine socio-familiare con le considerazioni che lo sostengono. Dalla formulazione e dai contenuti di detto programma, congiuntamente ad eventuali altre informazioni (acquisibili attraverso gli organi di polizia o altri enti pubblici) il giudice trae gli elementi per valutare la personalità dell’imputato, la sua estrazione sociale, il contesto familiare e la propensione a delinquere e può decidere se ammetterlo alla prova “sentite le parti, nonché la persona offesa”. Considerata l’ampiezza dei benefici cui potrebbe aspirare il soggetto che ha richiesto la misura, ogni atteggiamento lassista è da ritenere inaccettabile. Così come inaccettabile è la formulazione di un programma di trattamento che non tenga in debito conto le negative ricadute sulla collettività che ciò comporterebbe, anche in termini di credibilità del servizio medesimo e dell’intero sistema della giustizia.

Altra importante novità attiene alla disciplina dei contenuti dell’istituto che sono previsti dal legislatore ex ante e possono essere suddivisi in quattro macro categorie:
    •    reinserimento sociale dell’imputato;
    •    prescrizioni riparatorie;
    •    affidamento al servizio sociale;
    •    condotte finalizzate alla promozione della mediazione con la persona offesa.

Con la sospensione del procedimento, l'imputato viene affidato, con ordinanza, all'Ufficio di esecuzione penale esterna per lo svolgimento del programma di trattamento ritenuto idoneo dal giudice e, al fine di evitare che l’istituto si trasformi in una sorta di gratuita impunità per l’imputato, durante il periodo di prova, è sospeso il corso della prescrizione.

Elemento imprescindibile del programma di trattamento e che costituisce il nocciolo sanzionatorio con componente afflittiva della nuova misura è: lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Si tratta di un tipo di attività lavorativa che presenta le seguenti caratteristiche:
    •    deve essere una prestazione non retribuita;
    •    va determinata tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato;
    •    deve avere una durata minima di 10 giorni anche non continuativi;
    •    è una prestazione da svolgere in favore della collettività presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, presso le aziende sanitarie o le organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, anche internazionali;
    •    la durata giornaliera non può superare le 8 ore;
    •    deve essere svolta con modalità tali da non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato.

L’efficacia dell’istituto è strettamente connessa al corretto e serio adempimento dei contenuti del programma di trattamento, infatti, decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice, tenuto conto del comportamento dell'imputato, qualora riterrà che la prova abbia avuto esito positivo, dichiarerà, con sentenza, estinto il reato. Invece, nel caso di esito negativo della prova, per grave e reiterata trasgressione del programma di trattamento o delle prescrizioni, per il rifiuto opposto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, per la commissione durante il periodo di prova di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede, il giudice, con ordinanza, dispone la revoca della misura e la ripresa del procedimento. In questo caso, dalla pena da eseguire in caso di condanna, si detrae un periodo corrispondente a quello della prova eseguita, che va calcolato secondo precisi parametri.

Per la piena attuazione della riforma in atto si è cercato di implementare e consolidare le connessioni esistenti tra i servizi territoriali di probation, la magistratura ordinaria e il complesso di agenzie pubbliche e private nonché del volontariato presenti nelle comunità. Tali sinergie, sono volte al superamento di alcune criticità ancora purtroppo presenti e al miglioramento della qualità degli interventi previsti per far fronte alle sempre più numerose richieste di messa alla prova, che hanno comportato l’avvio di oltre 25.000 nuovi procedimenti per gli uffici territoriali, già da tempo in grave sofferenza e per i quali è indifferibile che si provveda all’individuazione di soluzioni più strutturali e definitive.

Al fine di non compromettere ulteriormente la già precaria credibilità del sistema della giustizia penale italiana, occorre garantire il miglior funzionamento possibile del nuovo istituto. Funzionamento che appare strettamente legato sia agli investimenti che il nostro paese saprà realizzare nel sistema del probation, posto che, oltre all’evoluzione dell’attuale approccio metodologico, organizzativo e procedurale, solo un adeguato numero di professionisti potrà realizzare la prospettiva di una più efficace risocializzazione “sul campo” in grado di sostituire del tutto il processo e la sanzione per il reato commesso, sia all’evoluzione culturale di cui saprà rendersi portatrice la stessa comunità laddove sarà in grado di costruire una rete integrata di servizi atta a garantire serietà, affidabilità e consistenza delle attività che è chiamato a svolgere chi è ammesso alla prova (lavori di pubblica utilità, attività di volontariato, di mediazione penale, risarcimento del danno), nonché a fornire una fattiva collaborazione ed un supporto adeguato agli uffici di esecuzione penale esterna e, quindi, in questo modo, contribuire a favorire l’aumento della percezione di sicurezza nella collettività. Se l’istituto non è ben costruito e se mancano le necessarie garanzie, rischia di essere applicato in maniera arbitraria, creando nuove ed intollerabili disuguaglianze. Esso costituirebbe un ulteriore privilegio per soggetti socialmente forti e che hanno la fortuna di vivere in zone più ricche e dotate di un miglior sistema di welfare, mentre ai meno fortunati (emarginati o stranieri) continuerebbe ad applicarsi il “classico” sistema delle reazioni alla devianza, sovvertendo completamente quelle che sono state le condizioni che hanno favorito, all’inizio del ‘900, la nascita del probation in Inghilterra, scaturito proprio dalla “messa a sistema”, del servizio offerto dalle molte associazioni di volontariato di ispirazione cristiana che, motivate dai valori della carità e della misericordia, si preoccupavano di controllare e di favorire il reinserimento sociale dei soggetti devianti più difficili, più problematici e, frequentemente, appartenenti alle classi sociali più marginalizzate e povere, ammessi a sanzioni diverse dalla detenzione e che solo successivamente, è stato progressivamente sostituito in tutta Europa da professionisti ed organizzazioni statali.
In tale direzione si muove il progetto di servizio civile "INSIEME: per un nuovo modello di giustizia di comunità" sviluppato e progettato dalla Direzione Generale dell'esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, cui partecipano, in partneriato, due Associazioni di Psicologi: l'Associazione Italiana di Psicologia Giuridica e l'Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo (vedi allegato).


ALLEGATO

Progetto di servizio civile "INSIEME: per un nuovo modello di giustizia di comunità"
della Direzione Generale dell'esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia (formulato al fine di rispondere al bando per progetti di servizio civile nazionale per l'anno 2017 del Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Progetto che di fatto costituirebbe la prima esperienza di impiego di volontari del servizio civile a livello nazionale nei servizi di probation. - estratto della partecipazione in partneriarato dell'Ente "Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo":
"… … ... L'ente "Associazione Italiana Psicoterapia Cognitivo Comportamentale di Gruppo" si impegna a fornire il seguente apporto al progetto:
La motivazione a partecipare al progetto nasce dalla volontà di rispondere in particolare a tre esigenze ben conosciute da chi opera in questo campo:
• Il bisogno di migliorare le attività connesse con l’indagine socio-familiare come prima conoscenza della persona che ha problemi di giustizia in modo da avere tutti gli elementi per la definizione del programma di trattamento su cui si articolerà la misura alternativa o il progetto di messa alla prova.
• Il bisogno di migliorare gli interventi di supporto per gli imputati in messa alla prova in modo da garantire il buon esito della misura di Comunità e diminuire la recidiva.
• Il bisogno di sperimentare le occasioni di “rinnovamento” del servizio connesse con la nuova misura della messa alla prova che consente l’estinzione del reato e la diminuzione delle persone detenute.
In Particolare, partendo dall’analisi dei bisogni rilevati e dalla capacità di risposta finora attivate, gli obiettivi generali del progetto saranno quindi:
• Formare gli operatori del Servizio Civile che parteciperanno al progetto.
• Migliorare le attività connesse con le indagini socio-familiari per l’accesso alla messa alla prova.
• Migliorare gli interventi di supporto per l’esecuzione della messa alla prova.
• Sviluppo ed evoluzione delle misure di comunità.
• Intervento di counseling psicologico e di psicoterapia (individuale e/o di gruppo) sulle vittime.
Ne consegue che i Beneficiari (destinatari dell'intervento) saranno, in particolare:
• I condannati
• I familiari dei condannati
• I familiari degli imputati
• Le vittime per il risarcimento del danno previsto dalla Messa alla prova
Gli Strumenti utilizzati a tal fine (da concordare con l'Ente promotrice) potranno essere:
• Test, questionari, schede di osservazione e monitoraggi, e altri Strumenti studiati all'uopo per monitorare la personalità ed il comportamento (specie emotivo e cognitivo) dei partecipanti alla "messa alla prova". Al fine di poter adeguatamente valutare l'andamento della messa alla prova e poter relazionare ai Magistrati responsabili del procedimento.
• Gruppi psicoterapeutici su: Ansia, Depressione, Problem Solving motivazionale, Assertività e Prosocialità.
• Gruppi di Supervisione per gli operatori del Servizio Civile che parteciperanno al progetto.
I professionisti coinvolti saranno Soci dell'Associazione iscritti all'Elenco degli Psicoterapeuti di Gruppo Cognitivo Comportamentale. Si tratta di psicoterapeuti con esperienza specifica di intervento sui Gruppi iscritti al rispettivo Ordine di appartenenza (Ordine degli Psicologi o Ordine dei Medici Chirurghi) abilitati all'esercizio della psicoterapia.


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